Non è raro ormai che la diagnosi di tumore colpisca donne e uomini che non hanno ancora terminato il percorso riproduttivo. Tra le ragioni che portano ad avere sempre più coppie desiderose di prole dopo un percorso oncologico certamente sono importantissimi i progressi terapeutici che permettono lunga e ottima sopravvivenza anche per malattie che pochi decenni fa non avrebbero lasciato alcuna prospettiva per il futuro, ma a questi si aggiungono l’aumento dell’età alla prima gravidanza e l’incremento o l’anticipazione delle diagnosi tumore che colpiscono le persone in età fertile. Pur considerando che le percentuali di guarigione sono in costante miglioramento dobbiamo tenere presente che le terapie necessarie possono pregiudicare una futura maternità o paternità. In molti casi oggi è comunque possibile prevenire l’infertilità dovuta ai trattamenti antitumorali e garantire anche ai pazienti oncologici una possibilità riproduttiva.
Per l’uomo l’approccio è sicuramente più semplice: prima dell’inizio di una terapia che possa indurre sterilità è sufficiente congelare il liquido seminale, che viene conservato in azoto liquido per tutto il tempo necessario alle terapie fino a completa guarigione. Per la donna è un poco più complesso: le tecniche variano in base all’età, al tipo di terapia prevista e al tempo a disposizione prima di iniziare i trattamenti. Si possono raccogliere ovociti con una stimolazione ovarica adattata, si può congelare tessuto ovarico oppure in concomitanza con la chemioterapia si possono usare farmaci che riducono gli effetti tossici delle terapie oncologiche.
Ad esempio, con il numero sempre maggiore di donne giovani che affrontano il trattamento per il cancro al seno, la fertilità ed il desiderio di gravidanza sono divenuti fattori criticamente importanti da valutare nell’analisi dei rischi/benefici programmando un piano di terapia oncologica. In passato non appariva minimamente consigliabile per una donna trattata per tumore al seno impegnarsi in una gravidanza o sottoporsi ad una stimolazione ovarica finalizzata alla raccolta di ovociti per una fertilizzazione in vitro, ma rapporti recenti portano la percentuale di donne che avviano una gravidanza dopo un tumore mammario tra il 10 ed il 15% e nonostante si registri un rischio di aborto spontaneo aumentato con valori attorno al 25%, sono rassicuranti i dati della letteratura che dimostrano che la gravidanza a termine non interferisce negativamente sulla sopravvivenza della mamma.
Nell’affrontare questa difficile consulenza, due sono le problematiche fondamentali: l’influenza del trattamento per il tumore sulle successive gravidanze e gli effetti di una gravidanza sulla prognosi del tumore.
Ovviamente ogni tipo si neoplasia ha “la sua storia” ed è importantissimo conoscere la biologia e lo stato effettivo del tumore alla diagnosi e al momento della decisione per una gravidanza: leucemie linfomi neoplasie infantili trattate e guarite, così come tumori che hanno portato all’asportazione chirurgica di un testicolo o un ovaio dopo la completa guarigione lasciano generalmente solo il problema di valutare la riserva di fertilità. Il discorso è completamente differente per malattie non sicuramente guarite o per il melanoma che nelle forme più avanzate è in grado addirittura di dare metastasi alla placenta e al feto. Questo sottolinea ancora l’importanza di una valutazione specialistica precisa e puntuale per ogni paziente.
Inoltre un ragionamento particolare meritano i tumori ormonodipendenti di cui certamente il più frequente e temuto è il carcinoma mammario, ma non si può trascurare neppure il carcinoma tiroideo per l’importanza dell’adeguamento terapeutico a tutela del feto. Merita qualche notizia in più entrambe queste patologie così importanti per le donne in età fertile.
TUMORI MAMMARI E GRAVIDANZA
A. Effetti delle chemioterapie sulla fertilità.
La chemioterapia citotossica può comportare amenorrea – a causa di un danno ovarico diretto – sia contestualmente al periodo di somministrazione della terapia, con una immediata ed irreversibile menopausa sia successivamente, alcuni anni dopo la chemioterapia, quando l’amenorrea si manifesta per “esaurimento” del patrimonio ovarico compromesso. Ciò vuol dire che anche per quelle donne nelle quali si evidenzi una ripresa delle mestruazioni l’età della menopausa sarà probabilmente anticipata se comparata a quella in assenza di chemioterapia. A questo proposito è importante sottolineare che l’eventuale perdurare dei cicli mestruali dopo chemioterapia non significa necessariamente che la fertilità sia conservata: la mestruazione cioè potrebbe anche solo rappresentare cicli anovulatori. Le conseguenze della menopausa includeranno il tipico corredo sintomatologico (vampate, mutamenti d’umore, aumento di peso e, più a lungo termine, osteoporosi). Il rischio di oligomenorrea o di menopausa, conseguente a chemioterapia è correlato all’età alla quale la paziente riceve il trattamento come all’età alla quale la menopausa fisiologica sarebbe attesa in assenza di chemioterapia, ma è connesso anche al tipo di farmaco citotossico scelto, alla sua dose ed alla durata del trattamento. È noto che gli agenti alchilanti sono, tra i farmaci citotossici, quelli a maggio rischio di amenorrea, mentre tale rischio è leggermente ridotto con le antracicline o gli antimetaboliti.Per alcune donne la valutazione della riserva ovarica prima del trattamento può rivelarsi fondamentale per la scelta del protocollo di terapia oncologica e dell’eventuale protezione della fertilità
B. terapia endocrina o ormonoterapia: antiestrogeni (tamoxifene) e GnRHanaloghi
Per le donne con tumore al seno positivo ai recettori per gli ormoni steroidei (Er-PgR), è usualmente raccomandato un trattamento con tamoxifene per cinque anni. Sebbene il tamoxifene abbia di per se un impatto lieve (è nato come farmaco per la fertilità) la naturale fertilità per tutte le donne inizia a declinare dopo i 35 anni d’età con la progressiva perdita di ovociti, quindi dopo cinque anni di trattamento le probabilità di successiva gravidanza sono relativamente basse, a meno che la donna non sia davvero giovane (età inferiore ai 30 anni) al momento della diagnosi e non abbia una considerevole riserva ovarica iniziale. Gli analoghi dell’ormone rilasciante gonadotropine (GnRH) vengono talvolta utilizzati in associazione al tamoxifene per garantire la soppressione della funzione ovarica in donne con tumore positivo ai recettori per gli ormoni steroidei. Per alcune pazienti a basso rischio di recidiva, un analogo del GnRH associato al tamoxifene può rappresentare un’opzione di trattamento adiuvante al posto della chemioterapia. Gli schemi usuali prevedono che l’analogo del GnRH sia somministrato per almeno due o tre anni durante i quali la donna potrebbe accusare alcuni sintomi della menopausa; mentre il tamoxifene dovrebbe essere continuato per la durata standard del trattamento, cioè cinque anni.
C. Analisi dei rischi associati a gravidanza dopo il cancro al seno: la paziente ed il nascituro.
Due sono i grandi problemi correlati alla gravidanza dopo una tumore al seno.
Il primo: il rischio di recidiva del tumore primitivo, e se questo rischio, possa essere influenzato da una gravidanza Ovviamente la valutazione è assolutamente personale: ogni donna è diversa da tutte le altre, e lo specialista deve tenere conto di molti fattori tra cui l’età biologica della paziente, del tempo trascorso dalla diagnosi, lo stadio e l’aggressività del tumore e dello stato dei recettori.
Il secondo, se ci siano rischi per il nascituro a causa del precedente trattamento materno.
Non si registra alcun aumento del rischio di patologia neonatale per i neonati da madri con neoplasia al seno diagnosticata prima della gravidanza in termini di prematurità, basso peso alla nascita, parto di feto morto o anormalità congenite. Inoltre non è nota alcuna conseguenza clinica avversa, per gravidanze successive a trattamento chirurgico o radioterapico per tumore mammario, fatta salva una diminuita o assente lattazione da parte del seno interessato. Rimangono ragionevoli dubbi sull’effetto dei trattamenti casualmente effettuati in gravidanza iniziale, per l’ovvia scarsità dei dati riportati a proposito.
Concludendo, i dati attuali suggeriscono che circa il 10-15% delle pazienti con tumore al seno affronteranno una gravidanza. Per quanto ci sia un’aumentata possibilità di aborto spontaneo dopo il trattamento per tumore al seno, non c’è alcuna chiara evidenza che i farmaci citotossici utilizzati nella terapia antineoplastica prima della gravidanza causino effetti avversi durante lo sviluppo fetale o sul neonato.
TUMORI TIROIDEI E GRAVIDANZA
A. Effetti del trattamento e sviluppo fetale
Nonostante l’ottima prognosi questi tumori meritano un’attenzione particolare per i possibili riflessi sullo sviluppo del feto, in cui gli ormoni tiroidei regolano la maturazione a vari livelli, ma soprattutto nel sistema nervoso centrale.
1 terapia endocrina sostitutiva Normalmente la tiroide materna aumenta la produzione di ormoni immediatamente dopo l’impianto dell’uovo, stimolata dalla gonadotropina corionica, per prevenire le necessità fetali. Nelle pazienti tiroidectomizzate per il tumore ovviamente questo non può accadere e nelle pazienti trattate con chirurgia conservativa l’aumento potrebbe non essere sufficiente, quindi è di estrema importanza che la terapia con tiroxina venga adeguata subito dopo l’accertamento della gravidanza e poi gradualmente ogni 6-8 settimane fino al parto basando l’aumento su dosaggi di fT4 e TSH. Si considerano ideali valori di fT4 nel terzo superiore del range di normalità per il laboratorio che esegue l’esame. Il dosaggio del solo TSH in gravidanza può non dare indicazioni sufficienti per l’interferenza di ormoni placentari, prima di tutti la gonadotropina corionica.
2 terapia con radioiodio. Per convenzione si sconsiglia la gravidanza per 6 mesi dopo il trattamento con iodio radioattivo che viene utilizzato in molti casi di tumore della tiroide dopo la chirurgia. In realtà è una precauzione che non ha un preciso riscontro biologico per quanto riguarda gli effetti dell’isotopo radioattivo, per cui non è ancora stabilita una soglia di rischio, ma il trattamento eseguito in ipotiroidismo sembra aumentare il rischio di aborto.
3 bilancio calcio vitaminico pazienti sottoposte a tiroidectomia totale possono aver bisogno di terapia con calcio e vitamina D anche per tutta la vita. La terapia deve essere adeguata e controllata con cura in gravidanza perché le necessità aumentate portano le dosi utili di vitamina D e calcio talvolta vicino alle dosi potenzialmente tossiche.
B. Effetti della gravidanza sulla prognosi del tumore: nonostante la tiroide sia sensibile agli estrogeni e ai fattori di crescita della placenta le statistiche non segnalano aumenti dei rischi materni per tumori diagnosticati in corso di gravidanza o per gravidanze iniziate dopo il trattamento per tumore tiroideo.
(vd. in pubblicazioni: Gibelli B, Zamperini P, Tradati N.: Pregnancy and thyroid cancer e Gibelli B., Zamperini P., Proh M., Giuliano G.: management and follow up of thyroid cancer in pregnant women)