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lo screening cervicale (pap test e …non solo)

paola zamperini

lo screening cervicale (pap test e …non solo)

Il tumore al collo dell’utero (o “cervice uterina”) è una malattia frequente che colpisce le donne di tutte le età. In Europa il tumore della cervice è la seconda causa di morte per carcinoma nelle donne sotto i 40 anni.
I fattori di rischio principali sono il fumo di sigaretta e la promiscuità sessuale.
Recentemente è stato scoperto che la presenza del virus HPV è indispensabile per sviluppare il tumore. L’HPV è una famiglia di virus molto diffusi che infettano la cute e le mucose. Il virus si trasmette principalmente con i rapporti sessuali. Si tratta di un’infezione comune che solitamente è asintomatica e si risolve spontaneamente. Circa il 75% delle donne ha avuto contatto con il virus almeno una volta nella vita… I tipi (o ceppi) responsabili del tumore al collo dell’utero sono circa 13 e sono definiti oncogeni. Da quando si contrae l’infezione a quando si sviluppa il tumore possono passare molti anni (anche 20-30).
L’introduzione del Pap Test ha diminuito la mortalità per questa neoplasia perché il test è in grado di identificare non solo i tumori quando sono ancora piccoli e quindi guaribili, ma anche e soprattutto le lesioni benigne (CIN, L-SIL, H-SIL) che possono trasformarsi col tempo in tumore maligno. Con le nuove conoscenze possiamo quindi affermare che chi non è portatore del virus ha un rischio bassissimo di sviluppare queste lesioni. Per poter sfruttare appieno le potenzialità, il Pap Test deve essere ripetuto a intervalli regolari e i centri di oncologia consigliano di ripetere il Pap Test tutti gli anni. In conseguenza delle nuove conoscenze si può eseguire, assieme al Pap Test, il test per il virus HPV (HPV-DNA test) nelle donne di età superiore ai 30 anni; in caso di negatività per il Pap Test e per l’HPV la sicurezza è tale che il controllo citologico successivo può essere spostato a due/tre anni. Per le pazienti positive al virus HPV e con Pap Test negativo si consiglia il controllo annuale di entrambi i test in quanto la semplice positività non è sinonimo di presenza di lesione ma rappresenta solo un fattore di rischio per sviluppare la stessa.
E’ importante sottolineare che Pap Test ed HPV-DNA test permettono di identificare solo i tumori e le lesioni pretumorali del collo dell’utero. Una patologia che interessi il corpo dell’utero o le ovaie non è individuabile attraverso questi test.
Lo screening cervicale NON SOSTITUISCE quindi la visita ginecologica.

E se il Pap Test è positivo?
Nella maggior parte dei casi di Pap Test positivo non si tratta di un tumore, ma di una lesione precancerosa che può essere eliminata con un semplice intervento ambulatoriale. Inoltre esiste la possibilità che sia un falso allarme (falso positivo); questa possibilità aumenta quando il test segnala alterazioni molto lievi, come ad esempio un esito “alterazioni cellulari squamose di significato indeterminato (ASC-US)”, oppure “lesione intraepiteliale squamosa (SIL) di basso grado”; in questi casi la probabilità che non vi siano lesioni può essere superiore al 50% e può essere indicato associare il test per il DNA dell’HPV. Nel caso di positività anche del HPV test sarà necessario procedere con un ulteriore indagine: la colposcopia. Questo esame consiste nell’osservazione del collo dell’utero con un ingranditore; se la colposcopia identifica una lesione questa può essere sottoposta ad esame istologico (biopsia) che di norma viene effettuata direttamente in ambulatorio.

Quanto è affidabile il Pap Test?
Se il Pap Test è negativo rimane comunque la possibilità che ci sia una lesione cervicale che il test non ha identificato (falso negativo): infatti nessun test è sicuro al 100%. La ripetizione ad intervalli regolari del PapTest è un metodo per ovviare al problema dei test falsamente negativi. Per aumentare la sicurezza si può oggi associare al Pap Test il test per l’HPV DNA. La negatività dei due test dà una sicurezza superiore al 98%.

Se il Pap Test è negativo ed il test per il DNA dell’HPV è positivo?
La positività del test virale non comporta malattie, è solo l’indicazione della presenza di un fattore di rischio. Per questo entrambi gli esami andranno ripetuti a distanza di circa un anno.

Papillomavirus umano (HPV)
Negli ultimi 10 anni è stato dimostrato che il tumore cervicale ha un’origine virale, dovuta alla persistenza dei virus del papilloma umano (Human Papilloma Virus – HPV). Questo virus è molto comune e si trasmette per via sessuale, la sua presenza non porta disturbi ed è innocua. La maggior parte delle persone viene a contatto e diventa portatrice del virus senza esserne a conoscenza; solitamente l’organismo se ne libera spontaneamente nell’arco di alcuni mesi, come accade con altri virus come ad esempio quelli che provocano l’influenza. Una parte della popolazione non elimina il virus; la persistenza di questo, associata ad altri fattori di rischio, come ad esempio il fumo di sigaretta, favorisce lo sviluppo di lesioni precancerose che se non curate possono, nel tempo ed in una piccolissima percentuale dei casi, evolvere in tumore della cervice uterina. La conseguenza di queste nuove informazioni è che la presenza del DNA dell’HPV è una condizione necessaria per lo sviluppo delle lesioni; per questo motivo è stato introdotto il test per l’identificazione del DNA dell’HPV insieme al Pap Test; infatti l’assenza del virus dà una maggiore sicurezza rispetto al semplice Pap Test di non avere lesioni e di non svilupparle nell’immediato futuro.
Infine per questo motivo è stata recentemente introdotta la vaccinazione contro il papillomavirus per le bambine e le giovani donne donne in modo da poter prevenire meglio le precancerosi e i tumori cervicali.

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Le vaginiti

LE VAGINITI: NORME INFORMATIVE, TERAPEUTICHE E PRECAUZIONALI

La vaginite è un’infiammazione della vagina. I suoi sintomi sono il prurito e il bruciore, sia a livello vaginale (internamente) che vulvare (esternamente). Un segno caratteristico delle vaginiti è rappresentato dall’aumento della secrezione vaginale con modificazione delle sue caratteristiche (colore, consistenza, odore).

Vaginite non è sinonimo di malattia venerea!  Quasi tutte le donne hanno avuto, almeno una volta nella loro vita, un episodio di vaginite.

In età fertile, di norma, le vaginiti sono dovute ad infezioni batteriche, fungine o parassitarie. A volte più organismi sono presenti contemporaneamente (infezioni miste).

I germi responsabili delle infezioni possono arrivare a colonizzare la vagina in seguito a rapporti sessuali ma anche per una non corretta igiene intima (pratica scorretta del nettoyage – lavaggio antero-posteriore). L’infezione può anche essere dovuta da un’anomala crescita di microrganismi normalmente presenti in vagina. La vagina sana, infatti, ospita microrganismi diversi responsabili di importanti funzioni; in caso di alterazioni del microambiente vaginale, questi batteri possono tuttavia moltiplicarsi eccessivamente causando una vaginite.

Molti fattori risultano predisponenti alle infezioni vaginali:

  • le malattie sistemiche (quale ad esempio il diabete) che riducono le difese immunitarie dell’organismo
  • l’uso di antibiotici per infezioni in altre parti del corpo: i farmaci utilizzati distruggono non solo gli agenti patogeni causa dell’infezione ma anche quelli che normalmente devono essere presenti nella vagina
  • gli spray vaginali deodoranti ed alcuni tipi di saponi deodoranti o detergenti possono provocare vaginiti non infettive (bensì irritative)
  • un’alimentazione squilibrata, troppo ricca di zuccheri, può modificare il pH vaginale, favorendo le infezioni
  • i periodi di particolare stress, in cui la resistenza ad ogni tipo di infezione (ad es. all’herpes simplex) risulta ridotta.

Le bambine e le donne in menopausa, raramente soffrono di vaginiti infettive.

Nelle bambine la causa più frequente è rappresentata dalla presenza di corpi estranei in vagina, di norma introdotti per gioco;  in queste pazienti non raramente la vagina si irrita a causa di bagni schiuma o detergenti troppo “aggressivi”.

Nelle donne in menopausa, la riduzione della produzione ormonale può far sì che le pareti della vagina diventino secche e sottili, rendendole per tanto più esposte alle irritazioni.

In caso di infezioni vaginali, certe o presunte, è necessario farsi vedere dal medico specialista al fine di evidenziare il tipo di organismo coinvolto ed iniziare al più presto una corretta terapia. Affinché si possa formulare una corretta diagnosi è indispensabile che prima della visita non siano utilizzare lavande interne o farmaci autoprescritti; questi, alterando il quadro sintomatico e clinico, possono rendere difficoltosa l’identificazione del microrganismo implicato e ritardare l’inizio della terapia.

Alcune infezioni vaginali sono trasmissibili col rapporto sessuale, anche se nell’uomo non danno segno della loro presenza.   In questi casi, pertanto, la terapia deve essere estesa anche al partner, indipendentemente dalla presenza/assenza di sintomatologia. Solo così è possibile evitare quella che, in gergo, viene chiamata una trasmissione “a ping-pong”.

Per prevenire le reinfezioni, è utile:

  • evitare di interferire con le normali secrezioni vaginali: non usare lavande interne se non prescritte dal medico né spray o deodoranti intimi
  • indossare indumenti intimi di cotone: questa fibra, a differenza del nylon e degli altri sintetici, permette una normale traspirazione evitando una eccessiva umidità locale; per le stesse ragioni, evitare indumenti troppo stretti
  • limitare l’uso del salvaslip agli ultimi giorni del ciclo, quando persistono spotting ematici; il suo uso quotidiano non assicura una migliore igiene ma determina condizioni locali in grado di favorire l’instaurarsi di vaginiti

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Candidosi e cistiti recidivanti

La candida recidivante è un’infezione causata da funghi del genere Candida, più frequentemente dalla specie Candida Albicans. Questo micete vive abitualmente in zone quali:
• il cavo orale (candida orale)
• la vagina (candida vaginale)
• il tratto gastrointestinale (candida intestinale).
 
I fattori che possono agevolare la proliferazione di questo microrganismo (candidosi sistemica) includono:
• uso protratto di antibiotici
• assunzione di contraccettivi orali
• assunzione di cortisonici
• deficit immunitari
• diabete
• stress
• malattie debilitanti
• gravidanza
• errata alimentazione

Alcune abitudini nello stile di vita possono essere ritenute responsabili dello scatenarsi dell’infezione da Candida:
• indossare pantaloni troppo stretti
• utilizzare biancheria sintetica
• trascurare l’igiene intima.

La candidosi è definita cutanea, orale o genitale in relazione alla regione del corpo che viene interessata dalla micosi. Le candidosi si manifestano con intenso eritema, fissurazioni simili a ragadi, erosioni; sono presenti prurito di variabile intensità, bruciore vivo e dolore. Le manifestazioni fisiche tendono a cronicizzare e le recidive sono frequenti (candida recidivante). Quando la candida diventa recidivante è perché si è creato uno squilibrio immunitario che gli ha permesso di insediarsi a livello intestinale in modo imponente (candidosi intestinale). Da quel momento, ogni volta che il sistema immunitario si indebolisce e non riesce più a svolgere il proprio compito adeguatamente, la candida si rinvigorisce e si manifesta a livello sintomatico nel corpo.

La cistite è un’infiammazione della mucosa della vescica causata da un’infezione delle vie urinarie. Le vie urinarie sono il sistema che conduce l’urina dal rene alla vescica attraverso due condotti, gli ureteri.  Dalla vescica, attraverso l’atto della minzione, l’urina viene emessa all’esterno attraverso un altro breve condotto: l’uretra.

Sintomi: 

dal punto di vista più clinico la cistite è caratterizzata dai seguenti sintomi irritativi, che possono essere presenti in toto o solo in parte:

  • Pollachiuria: un aumento del numero di minzioni durante le 24 ore, accompagnato dalla riduzione del volume dell’urina per ogni atto minzionale
  • Disuria: difficoltà nell’urinare con l’urina che viene eliminata goccia a goccia
  • Stranguria: bruciore o dolore durante la minzione, talvolta accompagnato da brividi e freddo
  • Dolore sovrapubico accompagnato dalla sensazione di non aver svuotato completamente la vescica
  • Tenesmo vescicale: fastidiosa sensazione di un nuovo ed urgente desiderio di urinare urine torbide, a volte maleodoranti
  • Talvolta perdita di sangue con l’urina
  • Se la cistite si propaga alle alte vie urinarie la temperatura può salire notevolmente (cistite con febbre).

Cause:

L’infezione che provoca la cistite è causata da batteri che popolano il colon e nell’80% dei casi si tratta dell’Escherichia Coli.  Altri batteri possono essere lo Stafilococcus Epidermidis (9% dei casi di cistite) e lo Streptococcus Fecalis (3% dei casi di cistite), oppure altri germi aerobi della flora fecale come Proteus, Klebsiella, Serratia, Enterobacter e Pseudomonas.  Questi batteri possono raggiungere la vescica dall’esterno, passando attraverso l’uretra, o dall’interno, scendendo dai reni a causa di propagazioni da organi vicini, o ancora per via ematica.

I fattori che possono predisporre a maggiori proliferazioni di batteri sono:

  • cattiva igiene intima
  • rapporti sessuali
  • utilizzo di detergenti intimi aggressivi o a ph scorretto
  • abusi alimentari
  • abuso di antibiotici, cortisonici, farmaci in genere

Uno dei problemi che generano continue infezioni delle vie urinarie dando origine alle cistiti ricorrenti è una aumentata permeabilità della mucosa del colon (intestino poroso). La vera guarigione dalla cistite recidiva e ricorrente si ottiene ripristinando la corretta permeabilità della mucosa intestinale.   Statisticamente la cistite colpisce prevalentemente il sesso femminile. Il fattore più importante che predispone la donna a sviluppare infezioni delle vie urinarie è dovuto alla brevità dell’uretra che nella donna misura solamente circa 3-4 cm.   La vicinanza dell’uretra alla vagina e al retto costituiscono quindi, per la donna, fattori di maggior rischio delle infezione delle vie urinarie rispetto all’uomo. È per questo, infatti, che i batteri provenienti dall’intestino possono raggiungere il condotto uretrale e da qui risalire in vescica dando origine ad una cistite.  Un’alterazione della flora batterica vaginale può far venire a mancare il primo vero strumento di difesa nei confronti dei batteri provenienti dall’esterno.

Cistite e Candida
Molte persone soffrono, in modo alternato, periodi di infezioni delle vie urinarie, cistiti batteriche, e in altri periodi di candida vaginale. Esiste una correlazione tra le infezioni delle vie urinarie e la candida. Ogni volta che per curare la cistite batterica si ricorre agli antibiotici, subito dopo, compare la candida… l’antibiotico indebolisce il sistema immunitario e la candida ne approfitta per avanzare.  Tutto farebbe pensare quindi che la candida si manifesti a causa delle ricorrenti cistiti batteriche… ma il problema in realtà è molto più complesso.  Sappiamo che le infezioni delle vie urinarie risentono enormemente delle migrazioni batteriche che dal colon raggiungono la vescica.  Infatti,  se nel colon c’è una presenza importante di batteri patogeni, durante il riassorbimento dei liquidi diretti ai reni, riusciranno ad infiltrarsi fino a infettare le vie urinarie. A quel punto l’utilizzo di antibiotici scatenerà la candida. Ma cosa può generare una presenza importante di batteri patogeni nel colon? Certamente ci possono essere molti fattori che potrebbero generare una proliferazione di agenti batterici patogeni nel colon, ma quando c’è alternanza Cistite-Candida, la verità è che il vero responsabile è la Candida! Quello che si osserva  infatti è che trattando adeguatamente la candida anche gli episodi di cistite gradualmente scompaiono. Al contrario, concentrandosi prevalentemente sulla cistite l’organismo non riesce a ritrovare quel naturale equilibrio che gli permette di trovare un risultato stabile.

Qual è quindi il reale meccanismo patogeno?

  • La candida altera l’equilibrio della naturale flora batterica intestinale e di conseguenza agevola la proliferazione di agenti batterici patogeni.
  • Questi agenti patogeni riescono poi a migrare nelle vie urinarie infettandole e infiammandole.
  • A causa dell’antibiotico terapia fatta per eliminare l’infezione batterica avviene un brusco abbassamento delle difese immunitarie che tentavano di gestire la candida.
  • A quel punto la candida è libera di manifestarsi con la sua peggior sintomatologia.

E’ necessario, per tanto, focalizzare il trattamento riequilibrante considerando principalmente l’organismo contaminato da candida e considerando solamente come aspetto secondario la contaminazione batterica che genera le cistiti. In questo modo sarà possibile spezzare il circolo distruttivo cistite-candida e trovare quel naturale equilibrio che resta l’unica condizione per trovare una stabilità.

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Candida intestinale

La candida (candida albicans) è un parassita appartenente alla famiglia dei miceti (funghi), ed è responsabile di un nutrito gruppo di patologie che va sotto il nome di candidosi.  La candida è specialmente nota perché causa spesso infezione vaginale, oltre che del cavo orale (mughetto) e della pelle. La famiglia dei funghi include muffe e lieviti. I lieviti sono dei funghi unicellulari che si moltiplicano molto rapidamente in un ambiente acido, ricco di zuccheri e amidi.  Nel 90-97% degli individui (sani) la candida  è presente nel tratto intestinale in forma di spora.  Errori alimentari, farmaci, disbiosi e immunodepressione determinano la trasformazione del lievito dalla forma di spora a quella vegetativa. Si ha quindi la formazione di metaboliti tossici tra cui l’acetaldeide con disturbo della sfera neuropsichica,  e la colonizzazione della mucosa intestinale e delle mucose degli organi vicini (vagina, vescica, uretra).  Quando la candida colonizza l’intestino, dove risiedono delle sostanze chiamate enzimi, indispensabili per digerire ed assimilare i cibi quotidiani, questa funzione fondamentale è inibita. Ciò provoca rallentamento della digestione, intolleranze alimentari, meteorismo ed altri sintomi a carico del sistema digerente.  L’eccessivo accrescimento di questi parassiti intestinali interferisce anche con l’assorbimento ed il metabolismo dei nutrienti essenziali: aminoacidi, vitamine e minerali. In un intestino disbiotico esiste una riduzione quantitativa della flora batterica intestinale ed è proprio la flora batterica intestinale a tenere perennemente sotto controllo la Candida.  Ecco perché quando vengono a ridursi specie batteriche intestinali protettive (Lactobacillus acidophilus, B. bifidum, Lactobacillus bulgaricus, S. thermophilus and L. salivarius ecc.), una delle conseguenze diventa la proliferazione indisturbata della Candida.  Essa, senza il controllo della flora batterica enterica, prolifera e lascia l’intestino migrando in sedi lontane e gradite quali la pelle, la vagina o il cavo orale.

Alla base di innumerevoli disturbi indotti da una candidosi sistemica, quindi, c’è una aumentata permeabilità della mucosa intestinale tale da indurre il passaggio di macromolecole di origine proteica che normalmente quando la barriera è integra, non dovrebbero attraversarla, perciò si instaura un processo attivo di tipo reattivo.

SINDROME  DELL’INTESTINO PERMEABILE

La Candida albicans è in grado di rilasciare fino a circa 80 differenti tipi di tossine (ognuna delle quali provoca diverse sintomatologie) che possono essere immesse in circolo. E’ un microrganismo dismorfico, il che vuol dire che è dotato di una spiccata adattabilità nei confronti dell’ambiente nel quale si riproduce e può scegliere di differenziarsi in due diverse forme emettendo delle lunghe propaggini radicolari. Queste ramificazioni, definite Rizoidi, si fanno strada attraverso le pareti intestinali dilatandole, facilitando pertanto il passaggio attraverso questi canali di frammenti indigeriti di proteine. Una volta alterata la permeabilità selettiva della mucosa intestinale, tali molecole penetrano nel flusso sanguigno innescando una reazione di allarme ed allergia. In questa fase il paziente diviene di solito sensibilizzato e fino a quando non verrà sottoposto ad una bonifica dello sgradito ospite, risulterà intollerante nei confronti di uno o più cibi contenenti i fermenti della proteina allergizzante. Ecco che i sintomi che si sviluppano possono assomigliare molto quelli che sorgono con il colon irritabile.

ALIMENTAZIONE DURANTE LA CANDIDOSI

Fondamentale, durante una terapia farmacologica anti-candida, associare anche una terapia nutrizionale.  La Candida, per riprodursi, necessita di zuccheri – ecco spiegato perché chi soffre di Candidosi intestinale spesso ha un’attrazione esagerata nei confronti dei dolci. Durante una terapia farmacologica anti-candida bisogna evitare i cibi graditi alla candida a favore di alimenti che non favoriscono la sua moltiplicazione.

CONSIGLI NUTRIZIONALI

  • Abolire i dolci, cioccolato, creme, caramelle…
  • Niente cibi “spazzatura” – merendine confezionate, snack ecc…
  • Evitare possibilmente i cibi confezionati con aggiunta di conservanti.
  • Evitare possibilmente i lieviti, soprattutto quelli chimici.
  • Ridurre gli zuccheri semplici raffinati: pane, pasta, pizza, patate ecc
  • Evitare gli alcolici, le bibite zuccherate, i succhi di frutta zuccherati
  • Evitare il caffè e le bevande eccitanti
  • Evitare i formaggi salati e stagionati
  • Evitare gli insaccati
  • Ridurre (se possibile eliminare) il latte vaccino (il lattosio è uno zucchero)
  • Lo yogurt è un alimento particolare che può dare o non dare disturbi
  • Frutta: evitare quella troppo zuccherina
  • Verdura: in fase acuta sostituire quella che provoca disturbi soggettivi

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IUD (Spirale)

La spirale (o IUD) è un dispositivo in plastica di forma varia, lungo circa   cm 4 del peso di pochi grammi, su cui è avvolto un filo di rame. Tutte le spirali hanno un filo terminale che fuoriesce dal collo dell’utero per 3 o 4 cm, in modo che la paziente stessa, specialmente dopo ogni mestruazione, possa agevolmente controllare la presenza dello IUD, introducendo un dito in vagina e ricercando il filo sul collo dell’utero  

Come agisce.  L’azione della spirale è collegata a modeste modificazioni locali della mucosa uterina, capaci – insieme a variazioni funzionali delle tube – di disturbare il processo di fecondazione e/o di annidamento dell’uovo. A ciò si aggiunge, nelle spirali al rame, una riduzione della capacita fecondante degli spermatozoi. Uno studio condotto per conto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dimostrato che il più frequente meccanismo di azione della spirale è quello di prevenire la fertilizzazione dell’uovo, e perciò funziona più come contraccettivo che come miniabortivo.

Lo IUD dev’essere applicato e rimosso dal ginecologo. Non occorre anestesia. I giorni del flusso mestruale sono il periodo migliore per l’applicazione, sia perché il collo dell’utero è leggermente dilatato, sia perché si può escludere uno stato di gravidanza. Lo IUD può essere inserito anche nelle donne che hanno effettuato una IVG e/o un aborto spontaneo: sarà opportuno attendere il primo ciclo mestruale dopo l’interruzione della gravidanza. Dopo un parto la spirale potrà essere inserita dopo la visita post partum con la costatazione del ritorno dell’utero alle sue normali condizioni di tono e volume.

L’uso della spirale nelle donne che non hanno mai partorito può provocare disturbi simili ai dolori mestruali, che tendono a regredire dopo i primi 3 o 4  mesi. Le prime mestruazioni dopo l’applicazione dello IUD sono spesso più abbondanti e ci possono essere delle piccole perdite tra una mestruazione e l’altra. Sono molto rari i casi di disturbi, tali da rendere necessaria la rimozione della spirale (5% circa).

Prima di inserire lo IUD è necessario fare una visita ginecologica accurata ed un pap-test. Allo stato attuale delle ricerche è da escludere che lo IUD provochi tumori.

CONTROINDICAZIONI: infiammazioni cronici e/o recidivanti dell’apparato genitale costituiscono una controindicazione all’applicazione dello IUD, mentre la nulliparità o precedente parto cesareo sono controindicazioni relative, da valutare con il ginecologo. Perdite di sangue al di fuori delle mestruazioni richiedono accertamenti ed una eventuale terapia prima dell’applicazione.

SicurezzaLo IUD è uno dei metodi contraccettivi più efficaci (98-99%). Poiché esiste la possibilità di un’espulsione parziale o totale inavvertita, la donna dovrebbe imparare ad accertare da sola la presenza dello IUD, soprattutto dopo ogni mestruazione.  E’ opportuno sottoporsi ad una visita di controllo dopo il primo mese di uso e successivamente ogni sei/otto mesi. Lo IUD può essere usato per diversi anni; i dispositivi intrauterini medicati con rame vanno sostituiti seconda del tipo ogni  3 o 5 anni. Dopo la rimozione, in genere è consigliabile un mese di pausa prima di  introdurre un nuovo IUD.

Se una donna rimane gravida con la spirale inserita e decide di portare avanti la gravidanza, lo IUD può essere rimosso entro la 12a settimana per ridurre il rischio di un aborto con infezione, ma – se viene lasciato nell’utero – non provoca malformazioni al prodotto del concepimento.

IUD medicati.  Vi sono dispositivi intrauterini che ottengono l’effetto contraccettivo rilasciando una dose costante di ormoni ad effetto progestinico; rappresentano una scelta terapeutica per la riduzione del flusso mestruale e della dismenorrea. E’ inoltre indicata in caso di endometriosi e adenomiosi , per ridurre il volume dei fibromi, proponendosi quindi  come terapia medica in alternativa ad una chirurgia demolitiva dell’utero

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Sonoisterografia

L’ecografia transvaginale è un’indagine diagnostica molto sensibile nell’identificazione della patologia della cavità endometriale, ma spesso non fornisce sufficienti informazioni diagnostiche.

La sonoisterografia (SIS) si caratterizza per una sensibilità ancora maggiore e per questo riveste un importante ruolo nella diagnosi differenziale poiché definisce le lesioni endocavitarie per forma, ecostruttura, dimensioni, vascolarizzazione. Permette inoltre una più accurata valutazione preoperatoria nella pianificazione della tipologia e nella difficoltà dell’intervento da effettuare (isteroscopia operativa, isterectomia, etc.) e consente di diagnosticare o escludere malformazioni uterine ed incontinenza del canale cervicale evitando di ricorrere ad esami invasivi quali l’isteroscopia diagnostica.

La sonoisterografia (SIS) è una tecnica di semplice esecuzione, ben tollerata dalle pazienti e scarsamente invasiva  che ha la durata media di 15-30 minuti.

INDICAZIONI

• sanguinamento uterino anomalo, specialmente in menopausa o durante terapia sostitutiva (HRT) o con Tamoxifene

• endometrio non  ben visibile ecograficamente, come nel caso di uteri con molti fibromi che non ne consentono uno studio accurato

• sospetto ecografico di patologia endocavitaria (polipi endometriali, miomi sottomucosi, malformazioni uterine).

• sterilità/infertilità/poliabortività

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QUANDO SI ESEGUE?

Se la paziente è in età fertile il momento migliore per sottoporsi all’esame è rappresentato

dalla fase proliferativa, ossia nei giorni appena successivi alla fine del flusso mestruale (entro il 10-11° giorno dall’inizio delle mestruazioni – comunque appena prima della presunta ovulazione).

Nelle pazienti in post menopausa o in terapia con GnRHa  non ci sono limitazioni di periodo

COME SI ESEGUE?

L’esame non richiede alcuna preparazione specifica.

Ci sono dei consigli che rendono l’esame più semplice da eseguire e meno “fastidioso” per la paziente:

  • svuotare la vescica appena prima dell’esame
  • assumere 1 supposta di buscopan (circa 1 ora prima dell’esame –  serve a “rilassare” la muscolatura e facilitare il passaggio attraverso il canale cervicale)
  • eseguire una lavanda interna con betadine lavanda vaginale pronta: 1 lavanda appena prima dell’esame + 1 appena rientrate a casa

-arrivare in ambulatorio circa 10 minuti prima dell’esame così da potersi “rilassare” ed ed avere il tempo di prepararsi “emotivamente” all’esame

L’esame inizia con un’ecografia transvaginale di base che permette di valutare le caratteristiche dell’apparato genitale interno e di escludere un’ovulazione precoce che porterebbe al rinvio della sonoisterografia.In un secondo momento viene estratta la sonda ecografica e, introdotto uno speculum in vagina, si visualizza la cervice e si inserisce un sottile catetere sterile monouso (catetere di Goldstein) .del diametro esterno di 1 mm attraverso il canale cervicalefino all’orifizio uterino interno. A questo punto, rimosso lo speculum,  si reinserisce la sonda vaginale e, sotto controllo ecografico, si iniettano alcuni cc di soluzione fisiologica sterile che, distendendo la cavità uterina, permette di valutare la morfologia, la presenza di eventuali patologie (polipi, miomi, setti uterini, ecc.) e lo spessore della mucosa endometriale.  

RISCHI

Tale metodica presenta un’ottima tollerabilità nella maggior parte delle pazienti.

Gli effetti collaterali (algie pelviche simil mestruali, sanguinamenti vaginali, reazione vaso-vaginale) sono molto rari e di lieve entità.

Nelle pazienti in post menopausa e nelle pazienti precedentemente sottoposte ad interventi uterini (TC) esiste la possibilità di non riuscire a superare l’OUI (orifizio uterino interno) con il catetere e quindi di dover sospendere l’esame.

L’esame può inoltre essere rinviato in caso di infezioni vaginali che rendano “pericoloso” il passaggio del catetere dalla vagina alla cavità uterina.

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IVG ed aborto spontaneo: il decorso post operatorio

La risposta dell’organismo ad una interruzione di gravidanza risulta molto variabile da soggetto a soggetto pertanto segni e sintomi possono presentarsi con diversa intensità e caratteristiche.

Di seguito vengono elencati i disturbi più frequentemente accusati dalle pazienti;  in caso di comparsa di sintomi diversi o con caratteristiche che si discostano da quanto in seguito descritto è comunque consigliabile rivolgersi al proprio ginecologo o c/o la struttura dove è stato eseguito l’intervento.

  • Perdite ematiche
  • Dolori addominali
  • Turgore al seno
  • Febbre

 Perdite ematiche – Le perdite di sangue possono esserci o non esserci affatto: la copiosità della perdita è legata alla storia ginecologica della donna e all’epoca di gravidanza cui si era arrivati.  L’apposizione della borsa del ghiaccio sul ventre può essere di aiuto se le perdite risultano troppo abbondanti (più di 10 assorbenti igienici nell’arco della giornata);  è sconsigliato l’uso di farmaci antiemorragici se non dopo consultazione specifica con il proprio curante. La prima mestruazione dopo l’interruzione della gravidanza avviene, di norma, dopo 30-40 giorni e potrebbe risultare più abbondante rispetto al normale.

Dolori addominali – Dolori addomino-pelvici, riferiti come crampi all’utero, sono frequenti e si presentano più facilmente dopo qualche giorno dall’intervento; talvolta si estendono verso la regione lombare e vengono riferiti dalle pazienti come “renali”. Questi dolori sono “normali” in quanto determinati dal ridimensionamento dell’utero.  Il riposo è di solito sufficiente a risolvere questa sintomatologia;  è inoltre di aiuto mantenere l’intestino libero, in questo periodo.  L’uso di farmaci antidolorifici non è di norma richiesto ma può essere discusso in relazione alla specifica sintomatologia della paziente.

Turgore al seno – Gli ormoni della gravidanza rimangono in circolo per 10-15 gg dopo la fine della gravidanza per tanto, durante questo lasso di tempo, il seno potrebbe restare turgido e dolorante. Il ginecologo curante deve essere contattato nel caso in cui si verifichi la montata lattea.

Febbre- I processi di riassorbimento delle proteine e la tensione dei giorni precedenti all’intervento possono determinare uno stato di lieve alterazione della temperatura: qualche linea di febbre non deve quindi allarmare. E’ invece necessario un controllo ginecologico nel caso di temperatura elevata accompagnata da dolori addomino-pelvici.

NOTE COMPORTAMENTALI

L’unico reale rischio a cui si può andare incontro dopo una interruzione volontaria di gravidanza è determinato dalle infezioni; al fine di evitare questo evento, si raccomanda di seguire le raccomandazioni a seguito:

  • Per tutto il periodo delle perdite di sangue evitare i bagni in immersione (piscina, mare, vasca); nessuna controindicazione invece per l’uso di docce.
  • Utilizzare solo assorbenti igienici esterni.
  • Non fare lavande vaginali interne.
  • Attendere almeno 15-20 gg. prima della ripresa dei rapporti sessuali.
  • Una visita di controllo è consigliata dopo 15-20 giorni dall’intervento.

IVG ed aborto spontaneo: il decorso post operatorio Leggi tutto »

La patologia della mammella

INFORMAZIONI UTILI SULLE MALATTIE DELLE MAMMELLE

  • La grande maggioranza delle patologie mammarie è di natura benigna e può manifestarsi a tutte le età, sia con modificazioni di vario tipo della struttura dell’organo (noduli, addensamenti…) che con sintomi di vario genere (dolori, secrezioni, infiammazioni…).
  • La mammella è un organo che risente notevolmente delle diverse fasi del ciclo mestruale oltre che di eventi tipici della vita della donna, quali gravidanza, allattamento, menopausa, per cui è normale che in tali periodi cambi aspetto sia all’apparenza che al tatto.
  • Il dolore è spesso un sintomo non significativo,  specialmente se compare in periodo premestruale, e di norma si associa a patologie benigne.
  • L’uso di taluni farmaci può influire sulla condizione delle mammelle:  gli psicofarmaci (sedativi, antidepressivi) specialmente se assunti per lunghi periodi, possono far comparire secrezioni dai capezzoli.
  • L’uso di contraccettivi ormonali che in passato era stato considerato come “a rischio” per patologia mammaria è oggi considerato sicuro dalla maggior parte degli studi.
  • Si ammalano soprattutto le donne, ma anche le mammelle maschili possono essere interessate da malattie benigne (ad esempio la ginecomastia, cioè un anomalo rigonfiamento della mammella) o, molto più raramente, maligne (cancro).

 CONSIDERAZIONI SUL TUMORE (MALIGNO) DELLA MAMMELLA.

Il tumore alla mammella è la più frequente causa di morte per neoplasia nella donna;  la sua incidenza è in costante aumento: attualmente 1 donna su 13 nel corso della propria vita si ammala di tumore al seno ed il rischio aumenta dopo i 40 anni di età.

Non è ancora nota la causa originaria di questa temibile malattia ma sono state individuate circostanze che aumentano la possibilità di incorrervi: i così detti “fattori di rischio”. La presenza di uno o più fattori di rischio non identifica i soggetti destinati ad ammalarsi di cancro ma solo un aumento di probabilità di incorrere in questa malattia; d’altro canto, l’assenza di tali fattori non è garanzia di non ammalarsi.

I principali fattori di rischio per il tumore della mammella sono:

  • un precedente tumore mammario
  • la familiarità (soprattutto di primo grado e per patologia comparsa in età inferiore ai 50 anni)
  • l’assunzione di estrogeni in menopausa (quando non bilanciata dal progestinico)
  • l’obesità
  • la nulliparità
  • lo sviluppo puberale precoce e/o la menopausa tardiva
  • il fumo e l’abuso di alcool
  • età superiore ai 40 anni

⇒ gli interventi di chirurgia plastica, l’esposizione a radiazioni sulla ghiandola mammaria (mammografia), l’uso di anticoncezionali non costituiscono un fattore di rischio.

DIAGNOSI PRECOCE

Purtroppo non esistono metodi di reale prevenzione della patologia tumorale della mammella: tutte le indagini che si possono fare hanno lo scopo di ottenere una diagnosi quanto più precoce possibile di un eventuale tumore. Questo è però un fattore estremamente importante in quanto esiste una correlazione diretta tra dimensioni del focolaio tumorale e le probabilità di guarigione (quanto più piccolo è il tumore tanto maggiori sono le probabilità di sopravvivenza!). Un tumore maligno scoperto e curato precocemente ha una probabilità di guarigione pari al 90%!  La diagnosi precoce può essere ottenuta su persone asintomatiche ed apparentemente sane con i test di screening.

 MAMMOGRAFIA (MX)

La mammografia è un esame radiologico: la mammella viene compressa tra 2 piani e “fotografata” in 3 proiezioni. A volte possono essere eseguite anche proiezioni supplementari per ottenere ingrandimenti di zone particolari. Le immagini così ottenute permettono di vedere e valutare la struttura interna della ghiandola e degli altri tessuti che compongono la mammella. Abitualmente la sola visita al seno, basata sulla palpazione, permette di riconoscere i noduli con diametro superiore a 1 cm; in caso di seno voluminoso e /o di localizzazione profonda del nodulo, inoltre, la capacità diagnostica della palpazione è ancora più limitata. La MX può essere in grado di riconoscere alterazioni molto piccole, anche di diametro inferiore a 5 mm, e/o alterazioni focali quali le microcalcificazioni che sono spesso la manifestazione d’esordio della patologia tumorale maligna della mammella.

ECOGRAFIA MAMMARIA 

L’esame, completamente innocuo ed indolore, sfrutta la capacità dei fasci ultrasonori di penetrare la ghiandola mammaria e di evidenziarne la sua struttura. Questo esame si utilizza come completamento della MX quando la struttura della mammella è molto densa e le lastre appaiono omogeneamente chiare (mammella giovanile), in caso di noduli clinicamente palpabili ma non evidenziabili alla MX, quando un nodulo visibile alla lastra mostra caratteristiche di dubbia interpretazione. Può essere impiegato come esame di prima scelta per lo studio della natura di un nodulo chiaramente palpabile, poiché in tal caso può fornire non solo indicazioni utili ma spesso anche risolutive. Impiegando la tecnica del color-doppler, questa metodica può inoltre valutare la vascolarizzazione della lesione evidenziata. L’indagine ecografica è inoltre utilizzata nel monitoraggio dei casi a rischio per non dover ricorrere costantemente all’esame radiologico, evitando in tal modo  di sottoporre le pazienti ad una dose eccessiva di radiazioni.

AUTOPALPAZIONE 

L’autoesame del seno può’ costituire un valido ausilio diagnostico e può contribuire ad anticipare la diagnosi di patologia mammaria. Deve essere eseguito con cadenza mensile, preferibilmente durante il flusso mestruale (quando ancora presente), cioè in un momento in cui non ci sia tensione della ghiandola.

  • Le mammelle devono essere osservate allo specchio a braccia sollevate sopra la testa, per verificare che non ci siano variazioni di forma, deviazioni del capezzolo o retrazioni della cute.
  • In posizione sdraiata: il braccio sinistro alzato dietro la testa, la mano destra esamina la mammella sinistra, poi la mano sinistra esamina la mammella destra, tenendo il braccio destro dietro la testa. La palpazione deve essere delicata, con la mano a piatto, comprimendo la ghiandola contro le coste, con il palmo della mano o i polpastrelli riuniti; il movimento è rotatorio, la compressione prima lieve poi più robusta, esaminando tutta la mammella.
  • Una compressione dell’area areolare concludono l’esame, per verificare la presenza/assenza di secrezioni dal capezzolo.

Lo scopo dell’autopalpazione non è quello di fare una diagnosi ma di riconoscere eventuali cambiamenti, da segnalare prontamente al proprio curante.

Con quale cadenza sottoporsi agli esami di screening?

La visita senologica dovrebbe essere eseguita con cadenza annuale.  La prima MX, in assenza di fattori di rischio, viene di norma eseguita a 40 anni; successivamente si consiglia un controllo annuale, associato con lo studio ecografico. Prima dei quarantanni, è consigliabile un controllo ecografico annuale; l’epoca di inizio di questa indagine è da valutare col proprio ginecologo in base alla storia familiare ed alle caratteristiche della propria ghiandola mammaria; anche se il compimento dei 25/30 anni rappresenta uno “start point “ ottimale anche nei casi non considerati a rischio. Ecografia e MX sono inoltre consigliabili in caso di lesioni sospette, indipendentemente dal periodo in cui ci si era già sottoposti all’indagine.

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Esercizi di riabilitazione motoria dopo interventi chirurgici al seno

Una mini guida facile ma pratica per la riabilitazione motoria dopo un intervento al seno che abbia comportato anche la dissezione ascellare (DA o svuotamento ascellare). La mobilizzazione precoce ha infatti il vantaggio di portare in breve tempo ad un recupero funzionale assoluto dell’arto che ha subito l’intervento di DA. L’osservazione metodica degli esercizi illustrati e l’assistenza del fisioterapista  permetteranno un’ottimale riabilitazione postoperatoria.

Dopo l’intervento si potranno avvertire alcune sensazioni nella sede dell’operazione. L’area della ferita può dare una sensazione di disagio o di tensione che rappresenta un decorso normale dopo un intervento chirurgico. Solo se la sensazione si tramuta in dolore importante, eventualmente accompagnato da febbre, si consiglia di sospendere gli esercizi. Queste sensazioni possono verificarsi per traumatismo chirurgico di piccoli nervi sensitivi. Le sensazioni sono molto variabili da una paziente all’altra e sono comunemente così descritte: senso di pesantezza, mancanza di sensibilità, formicolii, senso di goccia d’acqua fredda che scende lungo il braccio, bruciore…  Alcune donne avvertono maggiormente queste sensazioni in condizioni di stanchezza o per cambiamenti climatici. Tipico disturbo legato ad un nervo chiamato muscolocutaneo del braccio è l’insensibilità di un’area del braccio vicino all’ascella. In genere questi disturbi scompaiono appena le fibre nervose si sono rigenerate, in un tempo che va da qualche settimana ad un anno. Questi disturbi non dovranno interferire con la normale attività di tutti i giorni e con gli esercizi fisioterapici consigliati.

Gli esercizi motori vanno iniziati nella prima settimana dopo l’intervento chirurgico. Essi devono essere eseguiti per riacquistare completamente la motilità del braccio e della spalla dal lato dell’intervento e andranno ripetuti per tre volte al giorno. Durante l’esecuzione degli esercizi è fondamentale che il corpo rimanga sempre ben allineato (schiena diritta, spalle simmetriche, testa che guarda avanti ). Per raggiungere questo scopo è bene eseguire tali esercizi davanti allo specchio. Ricordate inoltre che tutta la giornata è un continuo esercizioil braccio infatti va usato per tutto quello che può essere la attività quotidiana; viene spontaneo usare poco il braccio dal  lato operato, come si si avesse paura di lederlo in qualche modo, in realtà il suo utilizzo è la cosa migliore che possiate fare per riprenderne presto e completamente la funzione.

La maggior parte delle pazienti riprendono una motilità normale in sei settimane. Talvolta dopo una quindicina di giorni dall’intervento potrete avere la sensazione di sentirvi più legate nei movimenti. Questo è dovuto alle fibre di riparazione cicatriziale a livello ascellare, ed è in questo periodo che viene richiesta la massima riabilitazione motoria. La respirazione profonda associata agli esercizi aiuterà ad ottenere un miglior rilassamento. Sedetevi comodamente e inspirate profondamente e lentamente in modo da espandere l’addome poi espirate lentamente buttando fuori tutta l’aria. Ripetete questo esercizio molte volte. Questa tecnica è utile durante lo svolgimento degli esercizi perché permette di avvertire minor disagio e tensione nell’area della ferita. Un senso di fastidio e modesto dolore possono essere normali durante lo svolgimento di tutti questi esercizi, e solo quando assumono intensità importante vi è controindicazione alla prosecuzione degli esercizi stessi. Effettuare regolarmente gli esercizi permetterà una diminuzione progressiva dei disturbi.

ESERCIZI

1. tecnica di respiro

Distese a letto, braccia lungo i fianchi, ginocchia piegate. Inspirate profondamente e lentamente dal naso, in modo da espandere l’addome al di sotto dell’ombelico, quindi espirate lentamente svuotando completamente i polmoni. Eseguite questo esercizio per qualche minuto.
 
2. aprire e rilasciare





Distese a letto, ginocchia piegate, flettete il braccio portando la mano sulla spalla, quindi portatelo in fuori mantenendo il contatto del gomito con il materasso fino ad avvertire una tensione a livello ascellare o pettorale (Fig. 1). Mantenete la posizione raggiunta rilasciando la muscolatura del braccio e della spalla eseguendo la tecnica del respiro per 30 secondi, quindi se la tensione è diminuita proseguite nel movimento di apertura fino ad avvertire nuovamente la sensazione di tensione che manterrete per altri 30 secondi (Fig. 2). Ritornate alla posizione di partenza. Ripetete l’esercizio 5 volte.

3. sollevare aprendo e chiudendo i pugni

Gomito disteso e braccio aderente all’orecchio. Distese a letto, braccia lungo i fianchi, ginocchia piegate. Sollevate lentamente le braccia parallele fino a portarle in posizione verticale, mantenete la posizione aprendo e chiudendo i pugni 5 volte (in modo da contrarre la muscolatura delle braccia) e ritornate alla posizione di partenza. Ripetere l’esercizio per 5 volte.

4. aprire e chiudere

In piedi o sedute con i piedi ben appoggiati per terra, intrecciate le mani tenendo la testa diritta. Lentamente sollevate le braccia sopra la testa. Superate dolcemente la testa e arrivate con le mani a toccarvi dietro il collo. Adesso aprite i due gomiti lateralmente e richiudeteli per 5 volte. Se doveste avvertire disagio nell’area della ferita, mantenete la posizione e lavorate con la tecnica del respiro: inspirate profondamente con il naso ed espirate lentamente con la bocca. La prima volta che eseguirete questo esercizio non riuscirete a raggiungere la posizione finale, ma con il passare dei giorni migliorerete progressivamente fino a raggiungere senza fatica tale posizione. Riportate lentamente le mani sopra la testa ed abbassate dolcemente le braccia. Attenzione: a) non inarcate la schiena  b) tenete la testa diritta.

5. risalire il muro di fronte

In piedi di fronte al muro ad una spanna da esso mettete tutte e due le mani contro la parete all’altezza delle spalle e fate salire le dita contro la parete parallelamente. Arrivate alla massima altezza possibile avvicinandovi completamente alla parete, fermatevi qualche secondo e ritornate nella posizione di partenza. Ripetete questo esercizio per 5 volte
Attenzione: non inarcate la schiena.

6. risalire il muro di lato

Avrete bisogno per questo esercizio di un pezzetto di nastro adesivo. In piedi con il fianco non operato rivolto verso la parete, a circa tre spanne da essa, appoggiate la mano sul muro all’altezza della spalla, utilizzando le dita risalite il muro distendendo il braccio e avvicinandovi completamente alla parete. Dove arrivano le vostre dita mettete un segno con un pezzetto di nastro adesivo. Ora eseguite l’esercizio nello stesso modo con il braccio operato, cercando di avvicinarvi sempre di più al segno che avete lasciato sul muro.Quindi allontanatevi dalla parete e scivolate con la mano fino all’altezza della spalla. Ripetere l’esercizio per 5 volte. Attenzione: mentre sollevate il braccio non inclinatevi dal lato opposto.

IL LINFEDEMA
Il “linfedema” è quel gonfiore alla mano, avambraccio o braccio che può comparire dal lato dell’intervento chirurgico. La frequenza del linfedema con la tecnica chirurgica di dissezione ascellare in cui vengono conservati muscoli e fasci neuro-vascolari è molto bassa ed è circa il 2%. La mobilizzazione precoce e gli esercizi di riabilitazione motoria sono un’ottima prevenzione del linfedema, che può essere evitato anche grazie ad alcuni accorgimenti. Potete usare un cuscino per appoggiare l’arto in modo che quando siete sdraiate il drenaggio venoso sia facilitato. Il rallentamento del drenaggio linfatico che si può avere dopo la rimozione dei linfonodi ascellari potrebbe predisporre alle infezioni, per cui vi consigliamo di proteggere la mano ed il braccio da ferite, punture, abrasioni e scottature. Se ciò avvenisse vi raccomandiamo di disinfettare accuratamente la parte. Se avete l’hobby del giardinaggio usate dei guanti protettivi. Nel caso si verificasse un’infezione, questa dovrà essere trattata dal medico con una terapia antibiotica. Sarà anche importante salvaguardare l’arto da possibili traumatismi non sollevando e non spostando grossi pesi ai quali non siete abituate. Evitate inoltre prelievi di sangue e/o flebo sul braccio operato. In caso di necessità utilizzate l’altro braccio.
N.B.: nel caso doveste avvertire, anche a distanza di anni dall’intervento il braccio, l’avambraccio o la mano più gonfi,  è opportuno che vi rivolgiate subito al fisioterapista.
Questi esercizi andranno eseguiti a casa e con regolarità (tre volte al giorno per 6 settimane), fino al raggiungimento di una completa ripresa motoria che dovrà avvenire entro le 2 settimane successive alla rimozione del drenaggio. Se così non fosse sarà indispensabile rivolgersi in un Centro di Riabilitazione.
Durante il trattamento radiante è opportuno garantire il mantenimento dell’elasticità dei tessuti irradiati, la risoluzione delle limitazioni funzionali dell’arto eventualmente presenti dopo l’intervento e la prevenzione di rigidità articolari e della stasi linfatica. Sarà quindi opportuno svolgere, durante ed eventualmente dopo tale terapia, tutti gli esercizi illustrati una volta al giorno per almeno due mesi. É in ogni caso consigliabile rivolgersi a un Centro di Riabilitazione, al fine di evitare l’instaurarsi di limitazioni funzionali.

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il perineo ed il pavimento pelvico

Il perineo
Il perineo è l’insieme delle parti molli che chiudono in basso la pelvi. Il termine “pelvi” deriva dal greco e dal latino e significa coppa o piatto; al suo interno sono contenuti i visceri pelvici: la vescica, l’utero e il retto.
Il perineo è costituito da un piano cutaneo e un piano muscolare (pavimento pelvico). Lo strato cutaneo ha la forma di un rombo, che può essere suddiviso in due triangoli:
a)il triangolo anteriore o uro-genitale, attraversato dall’uretra e dalla vagina;
b)il triangolo posteriore o anale, dove sbocca il canale anale.

Il pavimento pelvico
Il pavimento pelvico è l’insieme di muscoli e fasce che chiudono in basso la pelvi. È essenzialmente composto dal muscolo elevatore dell’ano, a sua volta maggiormente rappresentato dal muscolo pubo-coccigeo.
Il muscolo pubo-coccigeo prende origine dal pube, forma una specie di “laccio muscolare” attorno all’uretra, alla vagina e all’ano e termina sul coccige. Tale muscolo è dotato di una duplice azione:
a)la prima esercita la funzione di chiusura e apertura dell’uretra, della vagina e dell’ano;
b)la seconda assicura il sostegno degli organi della pelvi (vescica, utero, retto).
Questo muscolo volontario può essere rafforzato: ad es. si contrae quando si vuole evitare la fuoriuscita d’urina dalla vescica o di feci dal retto. Si rilascia invece quando s’inizia la minzione o la defecazione. Inoltre, svolge un importante ruolo nell’ambito dell’attività sessuale. Le numerose fibre del muscolo pubo-coccigeo che s’inseriscono nelle pareti della vagina sono l’evidenza anatomica che le sensazioni sessuali all’interno della vagina sono strettamente correlate al tono muscolare di tale muscolo.

La valutazione del pavimento pelvico
Un esame per valutare la forza contrattile dei muscoli del pavimento pelvico è il “test del pubo-coccigeo”. L’operatore appoggia “a piatto” due dita, indice e medio, sulla parete posteriore della vagina. Quindi invita la donna a stringere o chiudere la vagina attorno alle dita. La donna sente la contrazione del muscolo pubo-coccigeo e l’operatore può graduare la forza muscolare.
Una possibilità per quantificare oggettivamente la forza contrattile del muscolo pubo-coccigeo è rappresentata dall’uso del perineometro di Kegel. Si tratta di un semplice palloncino cilindrico, gonfiato con aria o acqua da inserire in vagina, collegato ad un manometro. L’aumento pressorio all’interno del palloncino è direttamente proporzionale alla forza contrattile del muscolo pubo-coccigeo.
È stata ipotizzata una correlazione tra il PC-test manuale e quello monometrico.
Un’altra opportunità per valutare la forza muscolare del muscolo pubo-coccigeo è l’impiego dei coni vaginali di Plevnik. Si tratta di una serie di coni, con peso progressivamente crescente, che trattenuti in vagina per almeno 1 minuto, stando in piedi oppure camminando, esprimono l’entità della forza muscolare.

Le alterazioni del pavimento pelvico
Le lesioni traumatiche del parto, le carenze ormonali della menopausa, i processi di invecchiamento, gli interventi chirurgici pelvici, le malattie neurologiche, ecc…possono portare ad una ridotta prestazione muscolare del pavimento pelvico, in particolare della sua componente pubo-coccigea.
Un’insufficienza muscolare del pavimento pelvico può determinare come conseguenza una certa difficoltà nei rapporti sessuali, una perdita involontaria di urina e/o di feci, e una caduta verso il basso dell’utero e delle pareti vaginali.
Già negli anni ’50 A. Kegel riferiva che oltre il 40% delle donne non è in grado di attivare selettivamente il muscolo pubo-coccigeo. Parecchie donne, infatti, durante la contrazione del perineo attivano anche altri gruppi muscolari (glutei, adduttori, addominali, diaframmatici). Tali disfunzioni, chiamate co-contrazioni muscolari perineali si dividono in:
a)agoniste, quando la contrazione perineale si associa a quella dei muscoli dei glutei e degli adduttori;
b)antagoniste, quando la contrazione perineale si associa a quella dei muscoli dell’addome e del diaframma.
Infine, una buona percentuale di donne, dal 27 al 30%, alla richiesta di contrarre i muscoli perineali, attiva solo i muscoli addominali: in pratica “spingono” anziché “trattenere”. Tale disfunzione è definita inversione del comando perineale.

RIABILITAZIONE DEL PIANO PERINEALE

La riabilitazione perineale si avvale di una serie di tecniche finalizzate a migliorare la contrattilità (forza) ed il tono (resistenza) della muscolatura del pavimento pelvico.

Le principali tecniche riabilitative sono rappresentate dalla chinesiterapia, dal biofeedback e dall’elettrostimolazione funzionale.

L’obiettivo è il miglioramento delle performances perineali, in modo da consentire al pavimento pelvico di espletare correttamente le sue funzioni di sfintere e di sostegno. In condizioni normali, l’attivazione di questa muscolatura garantisce la continenza urinaria e fecale, previene un prolasso genitale e mantiene la qualità della vita sessuale in termini di sensibilità vaginale e sensazione orgasmica.

Chinesiterapia perineale

La chinesiterapia perineale consiste in una serie di esercizi di contrazione e rilasciamento della muscolatura, diretti a ripristinare il controllo soggettivo sulla muscolatura. Il programma prevede tre fasi sequenziali:

  1. riconoscimento dei muscoli del perineo
  2. allenamento  dei muscoli
  3. utilizzo dei muscoli

Prima di iniziare gli esercizi è indispensabile una fase preliminare di rilassamento generale, concentrazione e respirazione diaframmatica.

3pavpelvicp 1. riconoscimento dei muscoli del perineoSeduta sul letto, comodamente appoggiata a dei cuscini, gambe leggermente piegate e divaricate. Contrarre (stringere) i muscoli del perineo (come se si dovesse trattenere le feci o l’urina) evitando di contrarre altri muscoli (interni della coscia, glutei o addominali). Respirare regolarmente inspirando durante la contrazione ed espirando durante il rilassamento. In questa fase non è importante la forza della contrazione ma la contrazione corretta e la concordanza  contrazione/respiro
2. allenamento  dei muscoliQuesta seconda fase è dedicata al miglioramento della forza e della resistenza dei muscoli.Contrarre forte i muscoli del perineo per 1-2 secondi durante l’espirazione poi rilasciare completamente per 2-4 secondi prima di ripetere l’esercizio. Il tempo di lavoro (contrazione) deve essere circa la metà del tempo di riposo. Ripetere l’esercizio 5-10 volte.Contrarre e mantenere la contrazione per 4-5 secondi, sempre durante l’espiro poi rilasciare la muscolatura per 8-10 secondi. Ripetere l’esercizio 5-10 volte.Ripetere gli esercizi in diverse posizioni durante la giornata, semisdraiata (gambe leggermente divaricate e piegate), seduta su una sedia o accovacciata, in piedi (anche leggermente piegate, con le mani appoggiate ad un tavolo).
1-pavpelvico                                                 2-pavpelvicoRipetere l’intera serie degli esercizi in gruppi di 10 contrazioni almeno 3 colte al giorno. Il numero degli esercizi può variare in base alle condizionidi allenamento dei muscoli; se dopo alcuni esercizi non si sente più la contrazione, interrompere e riprendere dopo qualche minuto di pausa; se invece gli esercizi vengono effettuati con facilità, aumentarli gradatamente.

3.utilizzo dei muscoli perineali

Una volta imparata la contrazione dei muscoli perineali, il passo successivo è quello di utilizzarli durante gli sforzi della vita quotidiana, ad esempio prima di tossire, di sollevare o spostare un peso, di saltare in palestra o di scendere gli scalini.

La chinesiterapia pelvi perineale ha, nell’ambito del trattamento conservativo uro ginecologico, un ruolo particolarmente importante esplicato tramite il rinforzo dell’azione di supporto viscerale del pavimento pelvico e della motricità volontaria sfintero-perineale, il miglioramento della tonicità vaginale e dell’elasticità tissutale e lo sviluppo dell’attività riflessa sfintero-perineale in occasione di bruschi aumenti pressori intraddominali.

Le tecniche chinesiterapiche si basano sull’utilizzo elettivo del muscolo pubococcigeo, dotato di una contrazione sinergica e quella dello sfintere striato uretrale. Il programma terapeutico mira al ripristino degli automatismi addominoperineali attraverso la presa di coscienza della muscolatura perineale, l’eliminazione di ogni co-contrazione muscolare sinergica all’attività perineale, agli esercizi di rinforzo perineale selettivo fino al training volto all’automatizzazione dell’attività perineale durante gli atti della vita quotidiana. L’indicazione principale è rappresentata dall’inefficienza perineale pura o associata ad incontinenza urinaria e/o al prolasso genitale.

Biofeedback

Il biofeedback è una ginnastica attiva che aiuta a riconoscere ed a contrarre correttamente la muscolatura del pavimento pelvico, abitualmente usata. Prevede gli stessi esercizi di contrazione perinale ma si avvale di un computer che trasforma l’attività muscolare (rilevata attraverso una sonda vaginale o anale) in segnali visivi o sonori. La donna è distesa su un lettino, si introduce una sonda vaginale o anale e vengono applicate sull’addome delle placchette autoadesive. Sul monitor la paziente vede il grafico del proprio lavoro muscolare poiché ad ogni contrazione corrisponde un tracciato che ne indica l’intensità e la durata mentre un secondo grafico avverte se si stanno utilizzando i muscoli addominali, ossia quelli non corretti.

Questo tipo di terapia rappresenta una modalità per influenzare eventi fisiologici inconscio sfuggiti ai meccanismi di controllo in seguito ad eventi patologici. Nel caso specifico della rieducazione perineale il biofeedback permette la presa di coscienza del complesso vescico-uretro-perinealetramite una retro informazione istantanea degli eventi detrusorialie dell’attività muscolo-perineale, permettendo nel contempo una verifica del trattamento in atto. E’ indicato nel trattamento di varie condizioni cliniche associate all’incontinenza: deficitaria presa di coscienza della muscolatura perineale, presenza di co-contrazioni sinergiche agoniste e/o antagoniste, inversione del comando perineale, ipovalidità perineale.

Elettrostimolazione perineale

L’ elettrostimolazione perineale è una stimolazione passiva che, oltre a favorirla presa di coscienza, stimola i muscoli del pavimento pelvico. E’ praticata mediante una sonda vaginale o anale munita di elettrodi superficiali, che conducono una corrente elettrica continua assolutamente indolore. Tale sonda emette impulsi elettrici di intensità modulata sulla singola paziente e sotto diretto controllo del terapista. L’elettrostimolazione può alleviare l’eventuale dolore delle cicatrici episiotomia durante i rapporti sessuali: la cicatrice è toccata da un puntale attraverso  il quale passa corrente continua antalgica che toglie il dolore e rilascia questo tratto muscolare dando così la possibilità di una normale ripresa dei rapporti sessuali.

La stimolazione elettrica intravaginale esercita effetti positivi sia sul meccanismo di chiusura uretrale che sull’inibizione detrusoriale.

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