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La tinta in gravidanza (e allattamento)

paola zamperini

La tinta in gravidanza (e allattamento)

La colorazione e la decolorazione dei capelli sono trattamenti che riguardano il fusto, ovvero la parte del capello che emerge dal cuoio capelluto. Tuttavia, le sostanze impiegate possono, anche se in minima parte, penetrare nell’organismo ed essere assorbite attraverso i vasi sanguigni che arrivano al cuoio capelluto.

Per questo motivo, tingersi i capelli sarebbe un trattamento da evitare del tutto durante la gravidanza in quanto c’è il rischio che alcuni elementi chimici che si trovano nelle tinture siano dannosi per la formazione dell’embrione.

Il primo trimestre è il periodo più importante e delicato per lo sviluppo del bambino, perché è proprio in questi primi tre mesi che avviene l’organogenesi.
Se la convivenza con qualche capello bianco o con un’antiestetica ricrescita è intollerabile, tingersi i capelli dopo il terzo è sicuramente meno pericoloso rispetto al primo trimestre, ma è assolutamente consigliato usare tinte senza ammoniaca (elemento chimico che permette al capello di aprire le cuticole per far penetrare il pigmento colorante) e senza resorcina (elemento chimico che serve per la preparazione dei coloranti).
Queste sostanze infatti sono in grado di attraversare la barriera placentare e vengono quindi assorbite dal feto: seppur in dosi minime, potrebbero essere nocive.
Meglio dunque optare per le tinture a base vegetale o per l’henne.
Quest’ultimo non ha una copertura totale della colorazione del capello e ha una durata monitore delle altre tinte; tuttavia ha il grosso vantaggio di essere un colorante del tutto naturale ed è quindi sicuramente meno tossico di qualsiasi altra cosa.
In alternativa, per confondere gli antiestetici capelli bianchi, potete ricorrere alle mecche/colpi di sole: il decolorante che viene utilizzato, a patto che non venga a contatto con il cuoio capelluto, non comporta alcun pericolo né per la futura mamma né per il feto.

Durante‘l’allattamento occorre tenere presente che tutto ci che è assorbito dall’organismo della madre viene trasmesso al bambino attraverso il latte materno.
Quindi, anche in questo caso, sarebbe meglio evitare le colorazioni ai capelli.
Tuttavia, se proprio è indispensabile, dovete seguire le stesse regole citate riguardo alle tinture in gravidanza.”

Tinte “safe” sono quelle senza ammoniaca e resorcina

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Antistaminici in gravidanza

Gli antistaminici sono farmaci di grande diffusione e largo impiego in quanto vengono prescritti per patologie molto diffuse come l’orticaria, la congiuntivite, la rinite allergica, l’asma e la sintomatologia atopica in generale, inoltre vi sono delle associazioni che vengono prescritte come sedativi, antiemetici, antinausea, antiprurito. E’ quindi evidente che una assunzione in gravidanza (accidentale o prescritta per sintomi legati alla gravidanza) non è un evento così improbabile.

La larga diffusione degli antistaminici è anche legata alla possibilità, per alcuni di essi, dell’autoprescrizione in quanto sono contenuti in alcuni prodotti da banco. Di seguito diamo alcune informazioni per gli antistaminici più utilizzati in Italia.

Cetirizina: metabolita attivo della idrossizina, antagonista dei recettori H1 per l’istamina. I dati sull’uso di tale sostanza nella specie umana sono scarsi. Secondo tre studi eseguiti su piccoli gruppi di donne trattate in gravidanza (16, 33 e 55 donne), l’incidenza di anomalia congenita nei neonati non è stata più grande dell’atteso. Anche gli studi eseguiti nell’animale da esperimento confermano tale dato.

Relativamente più numerose sono le informazioni riguardanti l’idrossizina. In un gruppo di 183 donne trattate nel primo trimestre la frequenza di malformazioni congenite, nei neonati esposti in utero, non era significativamente superiore a quella attesa, né era stato osservato un pattern specifico di malformazioni.

Loratidina: farmaco ad attività antiistaminica, senza attività sedativa. Uno studio eseguito su 210 donne che avevano assunto tale farmaco in gravidanza (163 nel primo trimestre) segnala che la frequenza di aborti spontanei e di malformazione congenita era stata quella attesa. Se assunto dalla donna durante l’allattamento al seno, il bambino potrebbe presentare irritabilità e ipereccitabilità. Inoltre, a causa della attività anticolinergica, potrebbe ridurre la produzione di latte. E’ verosimile, comunque, che la produzione di latte ritornerà ottimale, dopo la sospensione della terapia. Un altro effetto che si potrebbe vedere nel neonato allattato al seno, è la comparsa di una lieve sonnolenza con riduzione della suzione. Se si verificasse tale evento potrebbe essere meglio sospendere l’allattamento al seno utilizzando latte di formula.

Tali informazioni sono valide anche per la desloratidina, che è un metabolita della loratidina. Fexofenadina: altro antistaminico che non causa sonnolenza. Non esistono studi epidemiologici che riguardino il suo uso da parte di donne in gravidanza, in relazione ad eventuali effetti fetali. Dato che il farmaco è il metabolita attivo della terfenadina, abbiamo cercato informazioni anche su tale farmaco (ritirato volontariamente, per tossicità cardiovascolare, in quasi tutto il mondo ma in Italia rimane in commercio la specialità Allerzil®). Vengono segnalati numerosi gruppi di donne che avevano assunto terfenadina in gravidanza: l’incidenza di anomalie nei loro nati non era stata più grande dell’atteso che, lo ricordiamo, è il 3% circa.

Ketotifene: farmaco che blocca i recettori H della istamina ed interferisce con la funzione delle mast cellule, per questo motivo può agire come antiallergico e anche come vero e proprio anti-asmatico. Non sono disponibili informazioni riguardanti gli effetti sul neonato, in caso di assunzione materna in gravidanza. Nell’animale da esperimento, somministrato ad alti dosaggi, non ha causato alcun aumento di malformazioni congenite, ma un ridotto peso neonatale ed una ridotta sopravvivenza.

Concludendo possiamo dire che alcuni antistaminici si sono rilevati teratogeni nell’animale ma non nell’uomo, però per alcuni di essi le informazioni sono ancora insufficienti a stabilire la reale innocuità. Le evidenze disponibili attualmente indicano che l’esposizione ad antistaminici di prima generazione durante la gravidanza non è associata ad aumento del rischio di malformazioni maggiori o ad altri effetti avversi fetali. Sebbene vi siano poche evidenze sulle molecole di seconda generazione non è stato osservato un aumento del rischio di eventi avversi della gravidanza. Inoltre nessuno degli antistaminici è escreto nel latte materno in quantità apprezzabile da poter procurare effetti nocivi per il neonato. Come al solito, quindi,  l’atteggiamento più prudente è quello di evitare di prescrivere nuove molecole e farlo solo se necessario.

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La contraccezione

Per contraccezione, definita anche come controllo delle nascite o controllo della fertilità, si intendono i metodi o i dispositivi utilizzati per prevenire la gravidanza. Esistono più tipi di farmaci e metodi contraccettivi. Esaminiamo i principali.

Contraccettivi ormonali
– Pillola
– Cerotto
– Anello vaginale
– Spirale medicata
– Impianti sottocutanei
Contraccettivi di barriera
– Diaframma
– Profilattico
Contraccettivi di interferenza
– Spirale
Metodi naturali
Coito interrotto, Ogino-Knaus, Temperatura basale, Billings, Sintotermico

CONTRACCETTIVI ORMONALI
La “pillola”
Quando si parla di pillola, si intende comunemente un’associazione farmacologica di due ormoni: l’Etinilestradiolo e un progestinico (nelle pillole in commercio sono 7 i possibili progestinici: Gestodene, Desogestrel, Levonorgestrel, Ciproterone acetato, Drospirenone, Noretisterone, Norgestrel). La differenza tra le varie pillole in commercio sta nel dosaggio dell’Etinilestradiolo (da 50 a 15 mcg), nel tipo di progestinico usato (ogni progestinico ha effetti leggermente diversi) e nel tipo di combinazione tra i due ormoni: esistono infatti pillole in cui il dosaggio dei due ormoni è fisso per tutti i giorni dell’assunzione (pillole “monofasiche”) ed altre in cui il dosaggio di uno o entrambi varia per due o tre volte a seconda dei giorni del ciclo (pillole bifasiche e trifasiche).
Si parla di pillole a basso dosaggio per quantitativi di etinilestradiolo uguali o inferiori a 30 mcg). Sono comunque di uso comune anche altre formulazioni a dosaggi lievemente maggiori che, in casi selezionati possono garantire ottimi risultati.
I vari progestinici, sopra citati, hanno effetti lievemente diversi
– nell’azione sull’endometrio (il tessuto che tappezza internamente l’utero) ovvero nella capacità di renderlo atrofico (una eccessiva atrofia può essere negativa specialmente in una donna giovane).
– nella azione androgenica che consta di effetti positivi (ad esempio aumento della libido) ma anche di effetti negativi (quali acne, irsutismo, aumento di peso, alterazioni del profilo lipidico specie del colesterolo).
L’effetto della pillola deve essere valutato caso per caso: una pillola perfetta per una paziente può essere scarsamente tollerata da un’altra.
L’azione anticoncezionale si basa su tre effetti: l’inibizione dell’ovulazione , l’alterazione del muco cervicale (il muco diventa denso rendendo difficoltoso il passaggio degli spermatozoi) e l’alterazione (la sua alterazione rende poco probabile l’impianto di un eventuale gravidanza).

Dal punto di vista generale sono infondati i “terrori” sugli effetti negativi della pillola. La pillola ha effetti benefici sulla mammella nel caso di mastopatia fibrocistica, riduce l’incidenza dei tumori ovarici (specialmente le pillole con almeno 30 mcg di Etinilestradiolo) non aumenta l’incidenza di altri tumori. L’unico aumento di rischio sarebbe per il tumore alla mammella quando l’uso della pillola viene iniziato in giovane età (inferiore ai 17anni) e continuato per almeno 8-10 anni consecutivi prima della prima gravidanza.
Il rischio di trombosi viene lievemente aumentato dall’uso della pillola anche se con le moderne pillole a basso dosaggio è un rischio contenuto; il rischio aumenta invece notevolmente associando all’uso della pillola il fumo di sigaretta; le utilizzatrici della “pillola” dovrebbero sospendere il fumo o ridurlo almeno il più possibile; importante inoltre un attento screening della coagulazione, prima di iniziare l’utilizzo del farmaco, al fine di identificare lievi anomalie (genetiche o costituzionali) che potrebbero aumentare il rischio. Sarà inoltre buona norma effettuare esami ematochimici di controllo annualmente per verificare eventuali effetti collaterali del trattamento.
Le moderne pillole hanno scarsi effetti sul metabolismo lipidico e scarsi effetti sul metabolismo degli zuccheri. Non riducono inoltre la fertilità e alla sospensione della terapia la donna è subito in grado di concepire (salvo che alla base non ci siano patologie ginecologiche pre-esistenti all’uso della pillola o insorte durante il trattamento). Si consiglia comunque, prima di cercare una gravidanza, di aspettare almeno un ciclo regolare, alla sospensione della pillola, per verificare la corretta ripresa dell’attività ovarica. Il primo ciclo potrebbe infatti presentare una scarsa produzione di progesterone. E’ inoltre consigliabile, prima di cercare una gravidanza, iniziare l’assunzione di acido folico, una sostanza chiave nella prevenzione di malformazioni fetali quali la spina bifida e l’anencefalia, dal momento che l’assunzione protratta della pillola potrebbe diminuire i livelli plasmatici di tale sostanza.

In alternativa all’assunzione orale di estro progestinici ma con analogo effetto contraccettivo esiste la possibilità di una somministrazione transdermica (il cerotto) o transvaginale (l’anello).

Il “Cerotto”
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Il cerotto contraccettivo (EVRA – ENCIELA) permette il rilascio in circolo, mediante assorbimento cutaneo, di Etinil-estradiolo (EVRA contiene 20 mcg che corrispondono dal punto d vista pratico ai 30 mcg della pillola per os dal momento che c’è un migliore assorbimento; ENCIELA contiene 13 mcg che corrispondono dal punto d vista pratico ai 20 mcg della pillola per os ) e di un progestinico (Norelgestromina per EVRA e Gestodene per ENCIELA). I vantaggi sono legati all’assenza di problemi di assorbimento legati a vomito o diarrea, alla applicazione settimanale del cerotto (e non giornaliera), al basso dosaggio associato ad un controllo ottimale del ciclo.

L’”Anello vaginale”
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L’anello vaginale (NUVA-RING) consiste in un piccolo anello morbido da inserire in vagina, per restarvi 21 giorni. L’anello determina rilascio locale di Etinil-estradiolo (15 mcg) e di un progestinico con scarsissima attività androginica: l’Etonogestrel. Nonostante il bassissimo dosaggio ormonale, l’assorbimento per via vaginale permette una completa soppressione dell’ovulazione ed un controllo ottimale del ciclo (raro lo spotting). Dal punto di vista sistemico i bassi livelli ormonali permettono una riduzione degli effetti collaterali quali tensione mammaria, cefalea, ritenzione idrica. Fra i vantaggi dell’anello, il corretto assorbimento degli ormoni anche in presenza di vomito o diarrea, l’applicazione unica, la possibilità costante di verificare la presenza dell’anello in vagina. L’anello inoltre non crea nessun tipo di problema durante i rapporti sessuali.

Oltre alle associazioni estro progestiniche vi è la possibilità di utilizzare dei contraccettivi ormonali contenenti solo progestinici. Tra questi abbiamo la così detta mini-pillola, la spirale medicata e gli impianti sottocutanei: rappresentano una scelta terapeutica per la riduzione del flusso mestruale e della dismenorrea e trovano indicazione in caso di endometriosi e adenomiosi o quando l’associazione estro progestinica è sconsigliata per un aumento del rischio trombotico.
“La pillola di solo progestinico”
La pillola di solo progestinico viene definita anche come mini pillola contraccettiva risultando efficace tanto quanto le più tradizionali pillole contraccettive combinate che, oltre al progestinico, impiegano anche un estrogeno. La sua azione contraccettiva si esplica non solo inibendo l’ovulazione ma agendo anche e prevalentemente a livello del muco cervicale, in modo da impedire la penetrazione degli spermatozoi e la successiva fecondazione. Ha la medesima sicurezza delle pillole contraccettive combinate, ma a differenza di queste ultime è particolarmente indicata per le donne intolleranti all’estrogeno, alle donne in fase di allattamento (per cui è sconsigliato l’impiego di estrogeni), alle donne fumatrici o con età superiore ai 35 anni.
“L’impianto sottocutaneo”

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Nexplanon® è un contraccettivo ormonale ad azione protratta che viene inserito per via sottocutanea (ossia appena sotto la pelle) nella zona più interna della parte superiore del braccio. Un singolo impianto può essere lasciato in sito per 3 anni; una sostituzione più precoce dell’impianto può essere necessaria nelle donne sovrappeso. Durante l’utilizzo di questo dispositivo è molto probabile che il profilo mestruale subisca variazioni, come con tutti gli altri metodi con solo progestinico. Tali variazioni possono riguardare la frequenza, l’intensità o la durata del sanguinamento. Nel 20% circa dei casi la donna va incontro all’amenorrea (ossia alla totale assenza di flusso mestruale); in un altro 20% dei casi, invece, si hanno flussi prolungati e/o persistenti che rendono necessaria la rimozione anticipata del dispositivo.
“IUD medicati”

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Mirena è un dispositivo intrauterino che ottiene l’effetto contraccettivo rilasciando una dose costante di ormoni ad effetto progestinico direttamente all’interno della cavità uterina. L’effetto contraccettivo quindi deriva sia dal meccanismo di interferenza (come per le altre “spirali”) che da quello ormonale.
Tutti i contraccettivi ormonali non proteggono dalle infezioni sessualmente trasmesse.

METODI DI BARRIERA
Il “profilattico”

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Il profilattico o preservativo o condom è un dispositivo medico utilizzato come contraccettivo. E’ normalmente formato da una sottile guaina di lattice, ma ne vengono realizzati anche in altri materiali per i pazienti allergici. Si adatta perfettamente alla forma ed alla dimensione del pene grazie alla sua notevole elasticità. L’interno è cosparso di sostanze lubrificanti (che servono per evitare irritazioni e dolore all’uomo durante la penetrazione, non essendo il pene a contatto con i lubrificanti naturalmente prodotti dalla vagina prima e durante il rapporto) e/o di spermicidi (sostanze in grado di uccidere gli spermatozoi eiaculati).
E’ il solo contraccettivo che ha anche funzioni di protezione nei confronti di malattie veneree.

Il “diaframma”

diaframma            diaframma2
Il diaframma è una forma di contraccezione molto utilizzata negli anni 70 ed 80 ed oggi fuori uso nei paesi industrializzati; lo descriviamo perché esistono ancora delle società che lo contemplano nelle loro scelte contraccettive pur con tutti i limiti di inaffidabilità e difficoltà logistiche che lo contraddistinguono. E’ formato da una piccola semisfera di gomma soffice con un anello flessibile in gomma a forma di ‘O’ nel bordo che l’utilizzatrice riempie con uno spermicida (sostanza che uccide o inibisce gli spermatozoi) prima d’inserirlo in vagina per creare una barriera davanti alla cervice uterina , e dunque per evitare che gli spermatozoi vi penetrino. Deve essere inserito qualche tempo prima (sufficiente a controllare il buon inserimento) del rapporto sessuale e deve rimanere inserito nella vagina da 6 a 8 ore (dipendendo dalla potenza del gel oppure della schiuma contraccettiva utilizzata), in modo che lo spermicida abbia tempo per agire. Dopo questo intervallo, il diaframma può essere delicatamente rimosso, lavato in acqua tiepida saponosa, e rimesso nel suo astuccio (simile ad un portacipria compatto). Ogni diaframma, a seconda del materiale di cui è fatto, può durare da sei mesi fino a due anni; va conservato al riparo dal sole e dal caldo. Ha una efficacia contraccettiva scarsa, con un tasso di fallimento di circa il 20-30% e non protegge dalle malattie sessualmente trasmesse.

CONTRACCETTIVI DI INTERFERENZA

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La spirale (o IUD) è un dispositivo in plastica di forma varia, lungo circa cm 4 del peso di pochi grammi, su cui è avvolto un filo di rame. Tutte le spirali hanno un filo terminale che fuoriesce dal collo dell’utero per 3 o 4 cm, in modo che la paziente stessa, specialmente dopo ogni mestruazione, possa agevolmente controllare la presenza dello IUD, introducendo un dito in vagina e ricercando il filo sul collo dell’utero. L’azione della spirale è collegata a modeste modificazioni locali della mucosa uterina, capaci – insieme a variazioni funzionali delle tube – di disturbare il processo di fecondazione e/o di annidamento dell’uovo. A ciò si aggiunge, nelle spirali al rame, una riduzione della capacita fecondante degli spermatozoi. Uno studio condotto per conto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dimostrato che il più frequente meccanismo di azione della spirale è quello di prevenire la fertilizzazione dell’uovo, e perciò funziona più come contraccettivo che come miniabortivo.
(-> sempre in utiliy- ginecologia è a vostra disposizione una sezione specifica per lo IUD con modalità di inserimento, controindicazioni etc, che funge anche da consenso informato qualora la paziente decida per l’utilizzo di questo metodo)

I “METODI NATURALI”
I metodi naturali si prestano al caso di coppie stabili per le quali l’eventuale gravidanza non rappresenterebbe un problema. Hanno infatti una efficacia contraccettiva ridotta e non proteggono, ovviamente, dalle malattie sessualmente trasmesse.
Metodo del “coito interrotto”.
Consiste nell’interruzione del rapporto, prima dell’eiaculazione, in modo da evitare il contatto tra il liquido seminale e i genitali femminili. E’ un metodo fallimentare in quanto anche prima dell’eiaculazione possono essere emessi, in maniera inavvertita, spermatozoi. La Percentuale di fallimento è superiore al 30%.
Metodo Ogino-Knaus.
Si basa sul calcolo delle date dei giorni fertili in base alla durata dei cicli mestruali precedenti. La fase fertile viene identificata individuando il più breve ed il più lungo ciclo mestruale dell’anno precedente, sottraendo 19 giorni alla lunghezza del ciclo più breve e 11 a quella del ciclo più lungo, per stabilire rispettivamente il primo e l’ultimo giorno della fase fertile. I problemi legati all’adozione di questo metodo derivano dal fatto che non sempre le donne hanno cicli regolari per cui, senza lunghi periodi di astinenza, non è possibile evitare la gravidanza.
Metodo della temperatura basale.
Consiste nella misurazione quotidiana della temperatura corporea; la temperatura in prossimità dell’ovulazione subisce un incremento che si mantiene per diversi giorni. Il metodo prevede la possibilità di rapporti sicuri dal terzo giorno successivo al massimo aumento della temperatura fino alla comparsa del successivo ciclo mestruale. Esistono attualmente mini-computer (“contraccettivi tecnologici”) per ottimizzare l’analisi della temperatura basale riducendo i rischi di “erronea” interpretazione dei dati e determinando quindi maggiore sicurezza contraccettiva. Tali dispositivi permettono la rilevazione accurata della temperatura basale in modo sublinguale in pochi secondi, l’analisi statistica del periodo fertile, ecc. Anche per questo metodo la % di fallimento è molto alto (sia per la “versione” storica che per quella”tecnologica”.
Metodo Billings.
Valutazione della quantità e della qualità delle secrezioni vaginali da parte della donna stessa: in prossimità dell’ ovulazione le perdite vaginali diventano abbondanti e con aspetto a “chiara d’uovo” e la donna avverte una caratteristica sensazione di “umidità”. Successivamente le secrezioni ritornano ad essere scarse e meno vischiose. Il periodo sicuro sarebbe subito dopo le mestruazioni quando la donna avverte una sensazione di secchezza dei genitali. Appena inizia una sensazione di maggiore “umidità” è il segnale che avere rapporti non è più sicuro. E’ di nuovo periodo sicuro quando termina il massimo picco di “umidità” (deve essere passato da almeno 3 giorni) e ritorna una sensazione di secchezza. Inutile dire che la percezione del secco ed umido è estremamente soggettiva e che le secrezioni possono essere aumentate e/o ridotte per stati infiammatori o infettivi interferendo quindi sul giudizio già di per sé molto empirico…del periodo fertile.
Metodo sintotermico.
Misurazione della temperatura basale e contemporanea valutazione delle secrezioni vaginali.

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il tumore dell’ endometrio

Il carcinoma dell’endometrio è la neoplasia ginecologica più frequente in Italia e nei Paesi sviluppati; l’incidenza è in aumento. Si manifesta raramente sotto i 40 anni, presentando un incremento del rischio in fase post menopausale. La prognosi generalmente è buona in quanto nella grande maggioranza dei casi il tumore è diagnosticato quando la malattia è confinata al corpo uterino. La sopravvivenza globale è circa del 75% e dipende dallo stadio (rappresentante la diffusione della malattia) e dall’istotipo alla diagnosi.

PRECANCEROSI DEL CARCINOMA ENDOMETRIALE: L’IPERPLASIA ATIPICA
Il tipo più frequente di carcinoma endometriale (tipo 1) è spesso preceduto da forme di precancerosi che vanno sotto il nome di iperplasia atipica. Queste vanno distinte dalle iperplasie semplici o complesse, forme benigne che rappresentano solo un fattore di rischio per lo sviluppo di precancerosi e carcinomi endometriali. In caso di iperplasia atipica in post-menopausa è preferibile asportare l’utero; quando la diagnosi riguarda donne con desiderio di prole è possibile un trattamento farmacologico conservativo (con progestinici) fino all’ottenimento della gravidanza. Anche le iperplasie semplici e complesse non atipiche si giovano di un trattamento ormonale.

DIAGNOSI PRECOCE
La buona prognosi del tumore dell’endometrio è legata molteplici fattori favorevoli. La neoplasia insorge in generale in menopausa perché il ciclo mestruale comporta un rinnovamento mensile dell’endometrio ed è perciò protettivo. Quando il tumore si forma tipicamente sanguina: questo segnale in menopausa è anomalo e rappresenta motivo di consulto specialistico, il tumore è quindi diagnosticato presto perché precocemente sintomatico. Inoltre l’utero è un muscolo con pareti molto spesse quindi in genere quando si arriva alla diagnosi il tumore è ancora confinato alla parte più interna dell’organo e la rimozione dell’utero, comporta nella maggioranza dei casi la guarigione.

SCREENING NELLE DONNE AD ALTO RISCHIO
Lo screening per il tumore dell’endometrio nelle donne asintomatiche non è raccomandato poiché non sono stati osservati reali benefici in termini di riduzione di mortalità. Tuttavia vi sono categorie di donne ad alto rischio di tumore endometriale per le quali esistono raccomandazioni di screening (utilizzatrici di Tamoxifene -1- sindrome di Lynch -2-) basate sui presunti benefici della diagnosi precoce, anche se non esistono studi che dimostrano una riduzione della mortalità associata alla patologia. In caso di donne a rischio elevato sono state proposte per lo screening l’ecografia ginecologica trans-vaginale con la misurazione della rima endometriale ed eventuale campionamento (biopsia) endometriale.

(1) Il tamoxifene è un farmaco antitumorale assunto via orale e appartenente alla famiglia dei modulatori selettivi del recettore degli estrogeni. Il farmaco inibisce gli effetti degli estrogeni, gli ormoni femminili, deacetilando gli istoni, quindi annullando gli effetti del legame estrogeno-recettore al DNA. Questo è utile in quanto, spesso, le cellule cancerose del tumore al seno traggono giovamento proprio da questi ormoni. Numerosi studi hanno dimostrato che il tamoxifene a causa dell’effetto pro-estrogenico sull’endometrio aumenta l’incidenza di tumori uterini. Il rischio di induzione di carcinomi endometriali è più pronunciato nelle donne in post-menopausa, nelle obese e in quelle precedentemente sottoposte a HRT (terapia ormonale sostitutiva). Un carcinoma endometriale si sviluppa nello 0.5-1% delle donne che assumono tamoxifene per cinque anni, con un rischio triplicato rispetto ai controlli. Inoltre il tamoxifene può indurre iperplasia endometriale e polipi. Attualmente si ritiene che le neoplasie endometriali indotte da tamoxifene non abbiano caratteristiche di malignità superiori ai carcinomi riscontrati nella popolazione generale.

(2) La sindrome di Lynch (conosciuta anche come: cancro colorettale ereditario non poliposico, o carcinosi ereditaria del colon-retto su base non poliposica, Hereditary Non-Polyposis Colon Cancer – HNPCC) è una forma ereditaria di tumore al colon con trasmissione dominante, il che significa che ha una probabilità del 50% di manifestarsi nei figli di chi ne è affetto. Diversamente dalla poliposi adenomatosa familiare, la predisposizione allo sviluppo della malattia non si manifesta con la comparsa di polipi, ma direttamente con lo sviluppo del tumore al colon, in genere intorno ai 45 anni di età. Questa la manifestazione principale della sindrome di Lynch I, mentre quella di tipo II comprende, oltre al tumore del colon, altre possibili neoplasie a livello dell’endometrio, dell’ovaio, dello stomaco, del tratto urinario, dei dotti biliari. Le donne con la sindrome di Lynch (LS) hanno un rischio del 40-60% di sviluppare un tumore endometriale e di circa 10-15% di tumore ovarico. Molte strategie di screening sono state studiate ma l’efficacia reale dello screening endometriale rimane incerta. Sicuramente lo screening svolge un ruolo fondamentale nel gruppo di donne ad alto rischio che vogliono evitare una chirurgia profilattica. Le principali linee guida consigliano uno screening a partire dai 30-35 anni con ecografia ginecologica TV semestrale e campionamento endometriale annuale.

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fertilità e procreazione dopo il cancro

Non è raro ormai che la diagnosi di tumore colpisca donne e uomini che non hanno ancora terminato il percorso riproduttivo. Tra le ragioni che portano ad avere sempre più coppie desiderose di prole dopo un percorso oncologico certamente sono importantissimi i progressi terapeutici che permettono lunga e ottima sopravvivenza anche per malattie che pochi decenni fa non avrebbero lasciato alcuna prospettiva per il futuro, ma a questi si aggiungono l’aumento dell’età alla prima gravidanza e l’incremento o l’anticipazione delle diagnosi tumore che colpiscono le persone in età fertile. Pur considerando che le percentuali di guarigione sono in costante miglioramento dobbiamo tenere presente che le terapie necessarie possono pregiudicare una futura maternità o paternità. In molti casi oggi è comunque possibile prevenire l’infertilità dovuta ai trattamenti antitumorali e garantire anche ai pazienti oncologici una possibilità riproduttiva.
Per l’uomo l’approccio è sicuramente più semplice: prima dell’inizio di una terapia che possa indurre sterilità è sufficiente congelare il liquido seminale, che viene conservato in azoto liquido per tutto il tempo necessario alle terapie fino a completa guarigione. Per la donna è un poco più complesso: le tecniche variano in base all’età, al tipo di terapia prevista e al tempo a disposizione prima di iniziare i trattamenti. Si possono raccogliere ovociti con una stimolazione ovarica adattata, si può congelare tessuto ovarico oppure in concomitanza con la chemioterapia si possono usare farmaci che riducono gli effetti tossici delle terapie oncologiche.
Ad esempio, con il numero sempre maggiore di donne giovani che affrontano il trattamento per il cancro al seno, la fertilità ed il desiderio di gravidanza sono divenuti fattori criticamente importanti da valutare nell’analisi dei rischi/benefici programmando un piano di terapia oncologica. In passato non appariva minimamente consigliabile per una donna trattata per tumore al seno impegnarsi in una gravidanza o sottoporsi ad una stimolazione ovarica finalizzata alla raccolta di ovociti per una fertilizzazione in vitro, ma rapporti recenti portano la percentuale di donne che avviano una gravidanza dopo un tumore mammario tra il 10 ed il 15% e nonostante si registri un rischio di aborto spontaneo aumentato con valori attorno al 25%, sono rassicuranti i dati della letteratura che dimostrano che la gravidanza a termine non interferisce negativamente sulla sopravvivenza della mamma.
Nell’affrontare questa difficile consulenza, due sono le problematiche fondamentali: l’influenza del trattamento per il tumore sulle successive gravidanze e gli effetti di una gravidanza sulla prognosi del tumore.
Ovviamente ogni tipo si neoplasia ha “la sua storia” ed è importantissimo conoscere la biologia e lo stato effettivo del tumore alla diagnosi e al momento della decisione per una gravidanza: leucemie linfomi neoplasie infantili trattate e guarite, così come tumori che hanno portato all’asportazione chirurgica di un testicolo o un ovaio dopo la completa guarigione lasciano generalmente solo il problema di valutare la riserva di fertilità. Il discorso è completamente differente per malattie non sicuramente guarite o per il melanoma che nelle forme più avanzate è in grado addirittura di dare metastasi alla placenta e al feto. Questo sottolinea ancora l’importanza di una valutazione specialistica precisa e puntuale per ogni paziente.
Inoltre un ragionamento particolare meritano i tumori ormonodipendenti di cui certamente il più frequente e temuto è il carcinoma mammario, ma non si può trascurare neppure il carcinoma tiroideo per l’importanza dell’adeguamento terapeutico a tutela del feto. Merita qualche notizia in più entrambe queste patologie così importanti per le donne in età fertile.

TUMORI MAMMARI E GRAVIDANZA
A. Effetti delle chemioterapie sulla fertilità.
La chemioterapia citotossica può comportare amenorrea – a causa di un danno ovarico diretto – sia contestualmente al periodo di somministrazione della terapia, con una immediata ed irreversibile menopausa sia successivamente, alcuni anni dopo la chemioterapia, quando l’amenorrea si manifesta per “esaurimento” del patrimonio ovarico compromesso. Ciò vuol dire che anche per quelle donne nelle quali si evidenzi una ripresa delle mestruazioni l’età della menopausa sarà probabilmente anticipata se comparata a quella in assenza di chemioterapia. A questo proposito è importante sottolineare che l’eventuale perdurare dei cicli mestruali dopo chemioterapia non significa necessariamente che la fertilità sia conservata: la mestruazione cioè potrebbe anche solo rappresentare cicli anovulatori. Le conseguenze della menopausa includeranno il tipico corredo sintomatologico (vampate, mutamenti d’umore, aumento di peso e, più a lungo termine, osteoporosi). Il rischio di oligomenorrea o di menopausa, conseguente a chemioterapia è correlato all’età alla quale la paziente riceve il trattamento come all’età alla quale la menopausa fisiologica sarebbe attesa in assenza di chemioterapia, ma è connesso anche al tipo di farmaco citotossico scelto, alla sua dose ed alla durata del trattamento. È noto che gli agenti alchilanti sono, tra i farmaci citotossici, quelli a maggio rischio di amenorrea, mentre tale rischio è leggermente ridotto con le antracicline o gli antimetaboliti.Per alcune donne la valutazione della riserva ovarica prima del trattamento può rivelarsi fondamentale per la scelta del protocollo di terapia oncologica e dell’eventuale protezione della fertilità
B. terapia endocrina o ormonoterapia: antiestrogeni (tamoxifene) e GnRHanaloghi
Per le donne con tumore al seno positivo ai recettori per gli ormoni steroidei (Er-PgR), è usualmente raccomandato un trattamento con tamoxifene per cinque anni. Sebbene il tamoxifene abbia di per se un impatto lieve (è nato come farmaco per la fertilità) la naturale fertilità per tutte le donne inizia a declinare dopo i 35 anni d’età con la progressiva perdita di ovociti, quindi dopo cinque anni di trattamento le probabilità di successiva gravidanza sono relativamente basse, a meno che la donna non sia davvero giovane (età inferiore ai 30 anni) al momento della diagnosi e non abbia una considerevole riserva ovarica iniziale. Gli analoghi dell’ormone rilasciante gonadotropine (GnRH) vengono talvolta utilizzati in associazione al tamoxifene per garantire la soppressione della funzione ovarica in donne con tumore positivo ai recettori per gli ormoni steroidei. Per alcune pazienti a basso rischio di recidiva, un analogo del GnRH associato al tamoxifene può rappresentare un’opzione di trattamento adiuvante al posto della chemioterapia. Gli schemi usuali prevedono che l’analogo del GnRH sia somministrato per almeno due o tre anni durante i quali la donna potrebbe accusare alcuni sintomi della menopausa; mentre il tamoxifene dovrebbe essere continuato per la durata standard del trattamento, cioè cinque anni.
C. Analisi dei rischi associati a gravidanza dopo il cancro al seno: la paziente ed il nascituro.
Due sono i grandi problemi correlati alla gravidanza dopo una tumore al seno.
Il primo: il rischio di recidiva del tumore primitivo, e se questo rischio, possa essere influenzato da una gravidanza Ovviamente la valutazione è assolutamente personale: ogni donna è diversa da tutte le altre, e lo specialista deve tenere conto di molti fattori tra cui l’età biologica della paziente, del tempo trascorso dalla diagnosi, lo stadio e l’aggressività del tumore e dello stato dei recettori.
Il secondo, se ci siano rischi per il nascituro a causa del precedente trattamento materno.
Non si registra alcun aumento del rischio di patologia neonatale per i neonati da madri con neoplasia al seno diagnosticata prima della gravidanza in termini di prematurità, basso peso alla nascita, parto di feto morto o anormalità congenite. Inoltre non è nota alcuna conseguenza clinica avversa, per gravidanze successive a trattamento chirurgico o radioterapico per tumore mammario, fatta salva una diminuita o assente lattazione da parte del seno interessato. Rimangono ragionevoli dubbi sull’effetto dei trattamenti casualmente effettuati in gravidanza iniziale, per l’ovvia scarsità dei dati riportati a proposito.
Concludendo, i dati attuali suggeriscono che circa il 10-15% delle pazienti con tumore al seno affronteranno una gravidanza. Per quanto ci sia un’aumentata possibilità di aborto spontaneo dopo il trattamento per tumore al seno, non c’è alcuna chiara evidenza che i farmaci citotossici utilizzati nella terapia antineoplastica prima della gravidanza causino effetti avversi durante lo sviluppo fetale o sul neonato.

TUMORI TIROIDEI E GRAVIDANZA
A. Effetti del trattamento e sviluppo fetale
Nonostante l’ottima prognosi questi tumori meritano un’attenzione particolare per i possibili riflessi sullo sviluppo del feto, in cui gli ormoni tiroidei regolano la maturazione a vari livelli, ma soprattutto nel sistema nervoso centrale.
1 terapia endocrina sostitutiva Normalmente la tiroide materna aumenta la produzione di ormoni immediatamente dopo l’impianto dell’uovo, stimolata dalla gonadotropina corionica, per prevenire le necessità fetali. Nelle pazienti tiroidectomizzate per il tumore ovviamente questo non può accadere e nelle pazienti trattate con chirurgia conservativa l’aumento potrebbe non essere sufficiente, quindi è di estrema importanza che la terapia con tiroxina venga adeguata subito dopo l’accertamento della gravidanza e poi gradualmente ogni 6-8 settimane fino al parto basando l’aumento su dosaggi di fT4 e TSH. Si considerano ideali valori di fT4 nel terzo superiore del range di normalità per il laboratorio che esegue l’esame. Il dosaggio del solo TSH in gravidanza può non dare indicazioni sufficienti per l’interferenza di ormoni placentari, prima di tutti la gonadotropina corionica.
2 terapia con radioiodio. Per convenzione si sconsiglia la gravidanza per 6 mesi dopo il trattamento con iodio radioattivo che viene utilizzato in molti casi di tumore della tiroide dopo la chirurgia. In realtà è una precauzione che non ha un preciso riscontro biologico per quanto riguarda gli effetti dell’isotopo radioattivo, per cui non è ancora stabilita una soglia di rischio, ma il trattamento eseguito in ipotiroidismo sembra aumentare il rischio di aborto.
3 bilancio calcio vitaminico pazienti sottoposte a tiroidectomia totale possono aver bisogno di terapia con calcio e vitamina D anche per tutta la vita. La terapia deve essere adeguata e controllata con cura in gravidanza perché le necessità aumentate portano le dosi utili di vitamina D e calcio talvolta vicino alle dosi potenzialmente tossiche.
B. Effetti della gravidanza sulla prognosi del tumore: nonostante la tiroide sia sensibile agli estrogeni e ai fattori di crescita della placenta le statistiche non segnalano aumenti dei rischi materni per tumori diagnosticati in corso di gravidanza o per gravidanze iniziate dopo il trattamento per tumore tiroideo.
(vd. in pubblicazioni: Gibelli B, Zamperini P, Tradati N.: Pregnancy and thyroid cancer e Gibelli B., Zamperini P., Proh M., Giuliano G.: management and follow up of thyroid cancer in pregnant women)

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